
A fermarmi è stato il cavallo nocciola, che beccheggiava lungo le stringhe del recinto. Aveva due complici, a dire il vero: la luce sbieca che lo avvolgeva e, sullo sfondo, la sottile fascia di trapasso tra il profilo scuro della campagna e la pennellata arancio del basso cielo.
Il cavallo con i suoi complici mi ha fermato all’improvviso, sul tappeto verde al centro della capezzagna, e senza scalciare né scartare mi ha disarcionato dalla pianura brendolana per proiettarmi, con subitaneo abbrivio, in un’altra pianura.
Una pianura altra.
Ci ho messo un po’ a riconoscerla per nome, giusto il tempo di ricongiungere sguardo fuori e sguardo dentro. Ci ho messo un po’ anche perché il suo nome era fatto di due nomi, che fino a lì non avevo ancora accostato.
Il primo nome era scritto nella linea di confine dell’orizzonte, sullo sfondo, appena sotto l’arancio del basso cielo e appena sopra il verde scuro della campagna. È lì che, a sorpresa, ho ritrovato la pianura sconfinata e indolente di Cormac McCarthy, gli spazi vertiginosi della “Trilogia di frontiera”. Un’alternanza di messa a fuoco che, nell’impossibilità di contenere l’infinito, ora ingigantisce un dettaglio a pochi passi, prossimo e sperduto, come un cavallo selvaggio o le tracce di un recente bivacco o un viandante senza parole, e ora insegue le nitide linee dell’orizzonte, segue le onde lontane degli altipiani e attraversa le foschie per intercettare un animale solitario, una promessa di pioggia o la polvere che sta per alzarsi col vento. Sembra che, per lo più, non succeda nulla nella pianura di McCarthy, pagine e pagine di spazi, colori, tempi e movimenti leggeri che scorrono lente, come il passo del cavallo sul sentiero che si spinge fino alla frontiera e poi la raggiunge e infine la oltrepassa senza che la frontiera si veda mai. Sembra che non ci sia una vera storia nella pianura di McCarthy perché in realtà la storia è la pianura stessa. E se ogni tanto il racconto accelera e spreme in poche righe scatti di vitalità ed eventi drammatici è solo un’increspatura futile e passeggera nella pianura, che senz’altro la pianura, tra poco, appianerà.
Il secondo nome era scritto nella luce sbieca che avvolgeva il cavallo nocciola, nell’erba strappata da terra a morsi e nelle stringhe del recinto. È lì che, a sorpresa, ho ritrovato Holt e la “Trilogia della pianura” di Kent Haruf, le sagome degli alberi a fine giornata, una finestra illuminata sulla prima casa del quartiere, il rumore di un autocarro in manovra dietro un garage, un cane rauco che abbaia ad un gatto senza coda ed il punto di Luna in un cielo ancora troppo luminoso per riceverne la luce. Tutto accade dove nulla accade, i guizzi dello straordinario scovati tra le coltri dell’ordinario, le profondità della vita tratteggiate su una tavola apparecchiata, per colazione, di fronte alla vetrata che dà sul cortile, sul retro della stalla e, oltre, su praterie indisturbate fino alla statale, che è un limite senza limiti. Haruf racconta una qualsiasi giornata normale vissuta senza i filtri né punti di vista, il bene e il male indistinti, il bello e il brutto fusi insieme, come afferrare il gambo di una rosa a mani nude o camminare in un campo di girasoli e ortiche a piedi scalzi.
Le pianure americane di Cormac McCarthy e di Kent Haruf sono dall’altra parte del mondo eppure, a sorpresa, erano comparse lì, all’improvviso, nella pianura brendolana al tramonto, grazie al cavallo nocciola e ai suoi due complici. Mi hanno fermato mentre percorrevo il sentiero dei campi, che unisce e separa due pezzi del mio piccolo paese, correndo lento lungo rogge e filari, dove indovini la presenza delle bestiole dai moti dell’erba alta e dagli schiocchi nell’acqua.
Che poi, pensavo, se quello stesso sentiero tra i campi, che passa di fianco al recinto del cavallo nocciola avvolto di luce sbieca e stagliato sulla fascia di trapasso tra cielo e campagna, se quel sentiero fosse tracciato in un racconto di McCarthy e di Haruf, cambierebbe nome, diventerebbe, che so?, “the ancient rural trail from The Fat to ValleyHouse”. Ma in fondo, a farselo a piedi in una sera di luglio, senza filtri né punti di vista, può diventare una storia anche nella sua versione originale di vecchia capezzagna dal Grasso a Casavalle.
