
Qualche giorno fa salgo in treno, un regionale della domenica mattina.
Siamo alla stazione di partenza, c’è poca gente nei vagoni e scelgo un posto a caso vicino al finestrino. Mi accorgo che poco lontano c’è un ragazzo che dorme, un po’ di borse sparse ed i piedi scalzi appoggiati sul sedile di fronte.
Tra una stazione e l’altra i vagoni si popolano e arriva il controllore che, visto il mio biglietto, si rivolge al ragazzo addormentato. Lo chiama con discrezione due o tre volte, “Signore, signore”. Senza esito. Con altrettanta discrezione gli scuote due o tre volte la spalla per svegliarlo e attirare la sua attenzione. Ancora senza successo. Finalmente ad un’ennesima chiamata un po’ più sonora il ragazzo si muove, socchiude gli occhi e guarda distratto il controllore. Alla richiesta di mostrare il biglietto, farfuglia qualcosa di incomprensibile, in apparente stato di confusione e sofferenza, e improvvisamente ripiomba nel sonno. O forse sviene.
Il controllore prova invano a ridestarlo e nota che collo e braccia del ragazzo mostrano alcune ferite sanguinanti. A quel punto ritiene che il passeggero abbia bisogno di assistenza e, avvisati al telefono i propri superiori, allerta il 118 per un intervento di soccorso alla prossima stazione. Per tutto il tragitto il controllore rimane a vigilare sul ragazzo, cercando ogni tanto di svegliarlo e di chiedergli come si sente, senza ottenere risposte.
All’arrivo in stazione il 118 è già pronto al binario: un’infermiera entra nel vagone, sveglia con decisione il ragazzo e gli chiede “Dove stai andando? Come ti senti? Come ti sei ferito? Sai che stai sanguinando?”. Il ragazzo, sempre confuso e farfugliante, risponde di non avere problemi, di stare bene e di voler solo proseguire il viaggio. Infermiera e controllore insistono per trasferirlo in ambulanza e da lì, caso mai, in ospedale, ma il ragazzo rifiuta, ribadisce la volontà di rimanere in treno fino a destinazione e infine tira fuori il suo biglietto e la sua carta d’identità. Gli viene spiegato che, se non vuole essere soccorso, deve dichiararlo e firmarlo su un modulo, e così avviene. L’infermiera però è proprio un’infermiera e, con cortese decisione, gli raccomanda di togliere i piedi dal sedile e lo convince almeno a farsi medicare le ferite lì nel vagone, prima di riprendere il viaggio.
Nel frattempo il treno è fermo da una mezz’oretta e alcuni passeggeri, spazientiti, si lamentano ad alta voce, rivendicando il loro diritto di non perdere tempo e sollecitando l’uscita del ragazzo. Infermiera e controllore li guardano e, con severa ma pacata fermezza, spiegano come funzionano queste cose ed invitano alla calma, ancora per pochi minuti, così da completare correttamente le operazioni. Trascorrono quei pochi minuti, l’infermiera scende, le porte si chiudono, il treno riparte e il controllore, dopo un ultimo sguardo vigile sul ragazzo, prosegue il suo giro lungo il corridoio.
Il ragazzo ormai è sveglio, sembra ancora intontito e spaesato ma traffica con lentezza tra le sue borse e continua il suo viaggio, oltre la stazione in cui scendo io.
Quello che mi colpisce, in tempo reale, è soprattutto la condotta esemplare del controllore e dell’infermiera, nell’atteggiamento e nelle parole oltre che nelle azioni pratiche. Penso che, se dovessi dare un titolo a questo racconto, riguarderebbe la loro professionalità e la bontà del loro servizio su un regionale della domenica mattina.
Ma non posso fare a meno di chiedermi cosa cambierebbe se invece il titolo si concentrasse sul ragazzo, tipo: “Straniero in stato confusionale blocca un regionale in stazione” oppure “Treni in ritardo a causa di un migrante africano”.
Il racconto sarebbe lo stesso, ma probabilmente attirerebbe qualche lettore in più.