
Quando indica la direzione alza il braccio con un movimento simile all’effetto del vento sull’erba alta, l’indice appena incurvato. Il movimento aggancia il mio sguardo e lo spinge direttamente lassù, al Colle degli Alpini, non lungo tornanti e per sentieri, ma in linea retta, come se non fosse una meta da raggiungere ma un luogo in cui essere già.
Dal colle, dice, si vedono bene la vallata e le pale.
Ci pensa, o forse si sposta.
Però secondo me “ai Stoli” è anche meglio.
Il braccio si alza ancora, e adesso il vento lo dirige un po’ più a sinistra.
Da là si vedono la vallata e le pale, ma anche il Vanoi, le Feltrine e lo Schenèr. E proprio sotto ci sono le gallerie della grande guerra, si possono accendere le luci dentro, hanno i pannelli solari. Però poi bisogna spegnerle prima di andar via.
Era arrivato poco prima sotto il portico del Rifugio Vederna, passo lento e sguardo schivo. Schivo ma attento. Lento ma famigliare.
Ci ritroviamo vicini di tavolo, in un posto che, secondo il gestore, apre davvero tra una settimana. Eppure siamo lì a mangiare: misteri della montagna, che ha stagioni e orari e regole ma a modo suo è sempre aperta.
È di qui? chiedo.
Sempre stato qui, sì. Avanti e indietro, su e giù per queste montagne. Una volta… adesso meno. Una vita qui comunque.
Ho un maso un chilometro in là, ci ho cresciuto i miei figli. Si stava bene al maso. 18 metri è lungo, da qua a là.
Il braccio e il vento lo aiutano a spiegare. Lo sguardo rimane fisso sul bosco e sui pendii.
Avevate anche bestiame?
Ah, solo bestie piccole. Conigli. Galline. Stavamo proprio bene al maso. Ora non posso più. Gli anni… Ora sto da solo, giù in paese. Però vengo qui.
Il braccio si appoggia sul tavolo, il vento si ferma.
La mia casa è qui.
Il suo racconto corre sul filo, tra orgoglio e nostalgia, tra ciò che c’è e ciò che manca, come un cammino in cresta al tramonto, un passo sul versante che brilla dell’ultimo sole e l’altro sul versante già immerso nell’ombra.
Arriva il caffè. Beve un sorso in silenzio.
Poi bisbiglia: è troppo denso, serve il diluente.
Bisbiglia solo, non c’è nessun altro intorno, ma poco dopo sul tavolo compare la bottiglia di grappa.
È davvero bello qui, rilancio.
La mia vita è la montagna. Ognuno ha i suoi gusti, per carità, ma per me non c’è paragone. Viaggi, città, no no. Neanche il mare. Mi piace l’acqua però.
Mi guarda.
Quest’anno sono 67 anni di licenza di pesca.
Tento un conteggio sull’età, rinuncio e chiedo: Acqua dolce immagino.
Sì, torrenti.
Sorride, forse. O forse no.
Ho una cugina a Firenze, ho anche dei parenti a Roma, ci sono stato dieci giorni.
Scuote la testa, quasi per scrollarsi di dosso immagini e sensazioni scomode.
No, no, non fa per me, io scelgo sempre quella roccia.
Il vento si ridesta e porta il braccio verso il Pavione.
Io: vorrei salirci sul Pavione prima o poi, dicono ci sia una vista fantastica.
Lui: da lassù vedi lontano, ma bisogna andarci dopo un temporale, allora vedi ancora più lontano, fino all’Austria.
Io: sì, e dietro si vede la pianura…
Lui: là di fronte puoi contare anche 4 o 5 catene di monti, a strati, come onde.
Il braccio ora è fermo, ma il vento soffia deciso e sono le parole a muoverlo.
Io: da una parte i monti e dall’altra fino al mare, fino a Venezia, vero?
Lui mi guarda un istante, poi torna sulle rocce: sì, ma io guardo le montagne.
Capisco.
Lo saluto.
Gli chiedo il nome.
Rino, dice.
Arrivederci Rino, dico, magari ci rivediamo qui.
Sorride, forse. O forse no.
Grazie, arrivederci.
Non l’ha fatto, ma se mi avesse chiesto perché ho voluto sapere il suo nome credo che gli avrei detto la verità.
Per dare il titolo a questa storia.
Bello e grazie perché mi fa ricordare e un pò rivivere i tempi che furono, quando più giovane si andava per rifugi e si incontravano realmente delle persone con un passato simile a Rino.
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