

C’è stato il tempo delle chiusure, dei primi protocolli anticontagio e delle serate ad aspettare l’estrazione degli ATECO: chi vince al lavoro e chi perde a casa, o viceversa. Tutti sapevano tutto e nessuno sapeva davvero. Tempo di conferenze in diretta, attese come le partite dei mondiali, e di autodichiarazioni pronte, “patente e libretto”, per legittimare l’uscita da casa.
C’è stato il tempo delle riaperture, delle alchimie sanificanti e delle mascherine mascherate, delle regole impossibili e poi difficili e poi normali, delle soluzioni impraticabili ma solo prima di metterle in pratica. Tutti sapevano tutto e nessuno sapeva davvero. Tempo di mani pulite e di termometri che davano i numeri: 36,4 “ok”; 37,8 “aspetta che vieni da fuori, sei stato al sole e magari è per quello”; 31,3 “ok vai pure” “ma con 31 sono morto!” “non importa, basta che non hai la febbre”.
C’è stato il tempo dei rientri dall’estero, dei ripassi di geopolitica e degli incroci di decreti che ogni giorno sfornavano nuovi, inebrianti cocktail estivi di viaggi, quarantene e tamponi, da far invidia ai bar della riviera al tramonto. Tutti sapevano tutto e nessuno sapeva davvero. Stati vietati, semivietati e ammessi ma forse, e se il volo da Kiev delle 23.55 fosse tardato di 10 minuti sarebbe atterrato in una dimensione parallela, chissà se qualcuno al terminal sarebbe stato un grado di venirne a capo.
C’è ora il tempo della scuola, delle speranze e delle paure, dell’impegno e dell’incertezza, dei misteriosi banchi a rotelle e della rivincita dei righelli, che per 3 centimetri sentenziano il destino di una classe. Tempo di sintomi mai sentiti nominare che si manifesteranno di sicuro almeno a mattine alterne, di stanze covid “e chi ci va dentro con l’alunno untore?” e delle scommesse “se capita il positivo fermano solo la sezione, tutta la scuola o l’intera galassia centrale”?
C’è ora il tempo della scuola, dopo più di 200 giorni.
La scuola.
Quella cosa che prende il nome da una parola greca antica che significa “ozio”, “tempo libero”, perché allora il lavoro vero era solo manuale, fare di mano e faticare di membra, mentre lo studio, la lettura e le attività intellettuali erano altro, ai margini.
La scuola, nata come un lusso, ci ha impiegato millenni per trasformarsi in un diritto e oggi sembra tornata un lusso.
E allora via di dissertazioni e chiacchiericci, luminari e opinionisti, inquietudini apocalittiche e squilibri negazionisti, tutti sanno tutto e nessuno sa davvero.
Ma non importa: a sapere davvero saranno loro, bambine e bambini, ragazze e ragazzi, alunni e studenti.
C’è ora il tempo della scuola, c’è ora il loro tempo.
Servirebbe un po’ di silenzio.
Per sentire la prima campanella.
E lo scalpiccìo dei passi che, finalmente, ritornano nei corridoi e nelle aule.
