
Ieri è stato, in un certo senso, il mio ultimo giorno di scuola.
Si è conclusa, insieme ad un anno speciale, un’avventura speciale iniziata una sera del 2008, durante una sparuta assemblea dei genitori dell’asilo, ops… scuola dell’infanzia, a cui partecipavo come papà con una figlia nei piccoli, allora treenne.
Un’avventura iniziata come spesso iniziano le avventure di paese, per caso o per sbaglio. “Chi è disponibile ad entrare in comitato di gestione”. Silenzio. “Dai, su, proprio nessuno?” Silenzio e gelo. Un incauto istinto mi muove un braccio per sistemare gli occhiali. “Ecco, finalmente uno disponibile, tu Alberto, sì, hai alzato la mano!” “A dire il vero, io…” Ma sì, che sarà mai? proviamo! Più o meno è iniziata così.
Sono passati più di 12 anni, di cui 7 da presidente. La figlia, allora treenne, sta già al liceo e l’altro figlio, arrivato poco dopo, va ormai alle medie, invece io sono rimasto all’”asilo”, che nel frattempo è diventato il Polo dell’Infanzia di Brendola. In effetti fa strano.
Spesso mi è capitato di chiedermi, o che mi chiedessero, che ci facevo ancora lì. Una risposta è che a quella scuola mi ci sono affezionato, ma assomiglia un po’ alle risposte evasive degli studenti pluribocciati. Un’altra risposta è che è successo, e mentre succedeva diventava pian piano un progetto e si arricchiva di idee, obiettivi e sfide, e quando fai partire un progetto devi portarlo a compimento, anche se ad un certo punto non capisci più bene se sei tu a condurlo o lui a condurre te. A maggior ragione a scuola, un posto in cui pensi di entrare e invece è lei che ti entra dentro, e non ti lascia più.
Ieri comunque è stato il mio ultimo giorno, punto. Un filo di commozione, una lunga fila di ricordi, una galleria di immagini e momenti, persone e circostanze. Soprattutto una grande lezione. Sì, perché a scuola essenzialmente si va per imparare, e non solo gli alunni: a scuola, volendo, tutti imparano da tutti e da tutto. Così, mentre la porta di un luogo e di un pezzo di vita si chiude alle spalle, rivedo in un ultimo sguardo fuggitivo dodici anni di lezione.
Tra le tante cose, ho imparato che spesso si confonde il difficile con l’impossibile e che a far la differenza è la qualità delle persone col loro equipaggiamento di talenti, volontà e perseveranza.
Ho imparato l’importanza di un obiettivo chiaro e ambizioso, e come l’obiettivo diventi la bussola per orientarsi nelle scelte e tra le tante strade possibili, dirette e tortuose, comode e disagevoli, strade che a volte possono anche tornare indietro e far giri larghi.
Ho imparato che ogni piccola azione è guidata da un obiettivo, e che se gli obiettivi sono diversi prima o poi viene fuori, e così capita che anche le azioni divergano.
Ho imparato che la Storia esiste solo se e come viene raccontata, e che ogni primo giorno di scuola è per ogni bambino il suo primo giorno di scuola, unico e irripetibile.
Ho imparato il valore del volontariato, il patrimonio di umanità, risorse e possibilità che porta con sé e, insieme, la responsabile dignità che deve mantener viva, non sentendosi immune e meritevole a priori ma rispettando sempre ruoli, competenze, propensioni e capacità.
Ho imparato il significato dei ringraziamenti e quanti livelli di profondità e autenticità possano nascondersi dietro un “Grazie”, a seconda di chi, quando, come e dove viene detto.
Ho imparato che per quanto tu riesca a dare ad una scuola, la scuola riesce sempre a darti di più.
E ho imparato il valore dei dettagli, quelli che spesso sfuggono ma se li afferri sistemano tutto. Come qualche giorno fa, poco prima di Natale, quando sono entrato al Polo per l’ultima volta, per gli auguri e per un commiato. Apro la porta di ingresso e laggiù in fondo al corridoio, a quasi 50 metri, nel Salone Fuoco, due bambini sui 4 anni stanno appostati di guardia. Svegli e reattivi, mi scorgono subito, mi fissano, confabulano tra loro. Intuisco da lontano che mi vedono come un intruso: “Chi è quello? Che ci fa qui nella nostra scuola?” Faccio appena pochi passi verso di loro nel corridoio e noto che cambiano espressione. Ridono ed esclamano: “Ah sì, è lui!” Avanzo rassicurato, quasi orgoglioso, e li raggiungo per salutarli. Col sorriso da vecchi amici dico loro: “Subito non mi avevate riconosciuto, eh?” Loro mi guardano, in silenzio. “Dai, su, vi ho sentito. Ora avete capito chi sono, vero?” Silenzio e gelo. Finalmente rispondono: “No!” e se ne vanno a giocare.
Più o meno è finita così. Per caso o per sbaglio. O magari per qualche altra ragione.