
“È questa la diga?” chiedo in parcheggio all’uomo che, bici e sporta alla mano, sta tornando dalla spiaggia. “Ciò, a xè questa a me diga” risponde lui, con l’orgoglio del padrone di casa e con la diffidenza di chi non si aspetta di incontrare forestieri. Ringrazio, saluto con sobria cortesia e mi incammino verso il faro, che sembra aspettare laggiù in fondo.
Mi hanno detto che si chiama diga anche se in realtà non sbarra del tutto la corrente. Si limita a deviarla, rallentarla, ammansirla. La corrente è quella del mare, che nell’alto adriatico, mi hanno detto, da sempre, da quando qualcuno la osserva, circola in senso antiorario: istria, trieste, grado e poi giù lungo il litorale fino a qui. L’acqua del mare circola, erode, trascina e deposita. La diga è qui per questo, perché se l’acqua potesse fare ciò che vuole tirerebbe dritto e pian piano porterebbe più avanti sabbie e sedimenti, ma più avanti c’è la bocca di porto della laguna e qualcuno, ad un certo punto della storia, deve aver deciso che quel varco era importante, non si poteva rischiare di ritrovarselo tappato e quindi andava protetto. Per questo è qui la diga, realizzata ai tempi dei dogi, mi hanno detto, e qui l’acqua sbatte, devia, si calma e lascia giù sabbia e sedimenti. E magari dà pure il nome a punta sabbioni.
Non capisco se sia un pescatore o un surfista il tipo che sta arrivando al parcheggio in tuta nera aderente, con la faccia dipinta di bianco, una tavola sottobraccio e una cassetta nera con le ruote che saltella sui ciottoli. Mi guarda, lo guardo, passiamo oltre. C’è pochissima gente, quindi per forza ci si nota e ci si guarda.
Proseguo lungo il viale lastricato che punta dritto verso il faro. A destra il cordolo di massi argina il mare e lo invita ad entrare ordinato e obbediente verso la bocca di porto. Anche se le scaglie gialle del mose, schierate laggiù di traverso in direzione della laguna, ricordano che il mare, se vuole, fa ciò che vuole.
Una donna con il foulard cammina verso di me parlando al telefono. Gonna lunga scura, cappotto marrone, mi raggiunge e prosegue lasciandomi solo qualche frase della sua conversazione: “Adesso vado a casa e sai cosa faccio? (pausa pensierosa) Mi faccio due uova con i carciofi, perché insomma… (pausa drammatica) insomma, i xè cussì boni!”
A sinistra del viale lastricato la sabbia si stende lunga a perdita d’occhio e in larghezza disegna con la riva una curva che diventa pian piano tangente alla diga. Lì sbatte l’acqua, devia, si calma e lascia giù i sedimenti, tracciando ogni giorno, ogni stagione una linea diversa. I dogi pensavano solo a salvare la bocca di porto e senza volerlo (forse) hanno salvato anche la spiaggia, che in certe epoche, mi hanno detto, cresceva verso il mare di dieci metri all’anno. Sempre più avanti, con la pineta che si allontanava dall’acqua e jesolo, più su, che invece all’acqua si avvicinava sempre di più.
Quasi al faro mi sorpassa una coppia di ciclisti, in alta uniforme. Si fermano al capolinea e si fanno qualche foto col telefono. Quando arrivo mi chiedono se posso farne una ad entrambi insieme. Io dico “Certo, poi però dovremo bruciare il telefono e le mani” Mi guardano strano. Spiego: “Per il contagio”. Ridono, si consultano, lui ammette “Xè vero, el ga ragiòn anca iù”, lei tira fuori le salviette disinfettanti, io li inquadro e li immortalo, igienizziamo mani e telefono e ci salutiamo.
Quando pedalando si allontanano resto solo e mi fermo a guardare la risacca di tetrapodi in cemento che si accalca attorno al faro. Il tempo di fissare il luogo, poi prendo la via del ritorno, verso il parcheggio. Lungo il viale lastricato arriva una signora col cane al guinzaglio. Mentre mi viene incontro mi punta gli occhi addosso, interrogativa, curiosa, insistente. A portata di voce le chiedo, cauto: “La me diga”. Risponde, decisa: “No a xè minga sua!”