
“Uè” risponde al telefono la donna sulla soglia nella bottega. Altrove sarebbe “Pronto” oppure “Hello” o magari “Allô”. Qui, alla porta del negozio di profumi affacciato su Corso Garibaldi, basta “Uè”, asciutto e squillante, con una sola “e” accentata forte. Un suono che apre la conversazione come una parentesi, e il silenzio che segue è lo spazio a disposizione per chi sta dall’altra parte della linea. Per me che passo è solo silenzio e quando la donna dirà altro sarò già troppo lontano, oltre il palazzo del governo, verso la rocca longobarda. Lì traccheggia un gruppo di ragazzi, distratti e guardinghi, gesticolano parole veloci da cui d’un tratto esce un “Uèèèèèèè” lungo e modulato, sostenuto da almeno sette “e” scanzonate ad accento fluttuante, che fa il giro dalla piazza, danza intorno alle fanciulle di passaggio e ai lampioni ancora spenti e poi torna a cuccia da loro, come a segnare il territorio. È il capolinea del viale pedonale e si può tornare indietro, verso il teatro romano, oppure ci si inoltra nelle laterali della movida. All’angolo di un palazzo barocco c’è un crocchio di persone ben vestite, abiti da sera che si colorano nella luce morbida della sera in arrivo. Passa un vigile urbano e li saluta con un cenno della mano e con un “Uèèè” che parte alto e subito cala fino ad estinguersi, sapientemente calibrato sul confine tra confidenza e deferenza che da queste parti sono così bravi a presidiare.
Mi chiedo quante variazioni di “Uè” esistano, giocate sul numero di “e”, sulle modulazioni di accenti e sulle infinite combinazioni di toni. Una parola che non è neanche una parola, raccolta lungo le strade tiepide di fine aprile, in tante diverse accezioni quanti sono i volti delle persone che oggi all’ora del tramonto muovono il centro di Benevento. Quando ci passo accanto l’Arco di Traiano sembra sussurrare circospetto “Uèè, senti a me, qui una volta si chiamava Maleventum”. E in effetti, in fatto di parole, stuzzica curiosità la faccenda del toponimo che ad un certo punto della storia vira in direzione opposta. Chiedo lumi al mio padrone di casa, un ospitale locandiere che di faccende storiche sembra saperne. Dell’antica Via Traiana che da Benevento tagliava l’Appennino per poi piegare verso la costa adriatica fino a Brindisi, il porto apulico dove attraccavano le spedizioni belliche di ritorno dalle scorribande oltre mare. Della via francigena che nel suo epico itinerario dall’Europa del nord fino alla Terra Santa inanella il centro beneventano e si smarrisce tra i suoi vicoli. Dei personaggi storici che l’immaginario collettivo indebitamente assegna ad altri luoghi ma che orgogliosamente qui ebbero i natali, come don Giuseppe Moscati, lo stesso San Gennaro e, fatalmente, Padre Pio di Pietrelcina.
Gli chiedo allora del nome cittadino, della sua transizione dal male al bene. Lui sorride e divaga, accenna ai forti venti delle vallate sannitiche, riaccende cenni di mitologia greca e sguaina memorie di conquiste longobarde. Inopportunamente insisto e finiamo a cercare notizie in rete, ricavandone ipotesi di linguistica arcaica in cui la radice “mal” ricondurrebbe alla pietra, ma la faccenda rimane irrisolta, così che di fronte ai sussurri circospetti dell’Arco di Traiano non resta che l’immaginazione.
Immagino l’imperatore in partenza alla volta della remota Dacia, all’orizzonte battaglie esotiche e lunghi giorni di terra, di mare e di terra ancora. Dalla capitale, seguendo la via Appia, Traiano ha appena raggiunto la cittadella alta, circondata dai due fiumi, e lì si ferma, gettando uno sguardo oltre, giù verso il lieve pendio e avanti ancora contro le montagne di levante, presagendo il tracciato di una nuova strada che reca il suo nome e che presto sarà percorsa per la prima volta. È un tardo pomeriggio di aprile ed è tempo di una sosta. Roma non è lontana ma i suoi frastuoni si smorzano nelle increspature delle verdi colline e qui non arrivano che tenui echi delle marce trionfali e degli intrighi forensi. È tempo di una sosta di riposo, preparazione e libagioni, di sacre invocazioni alla sorte e di profani svaghi di corte. L’imperatore scende da cavallo e si dirige a passi lenti verso il suo alloggio ma, prima di ritirarsi, si volta verso i luogotenenti e impartisce gli ultimi ordini di giornata. Comanda di preparare la partenza per domani, all’alba. Comanda di realizzare un arco in suo onore proprio lì, dove parte e arriva la sua via. E infine, scuotendo la testa, aggiunge: “Uèè, iuvenes. Huius civitatis nomen adversam fortunam fert. Nulla interposita mora mutanda est”. Più o meno: “Uèè, ragazzi. Il nome di questo posto porta jella. Va cambiato subito”.

Che bello!
Mi hai portato a spasso per Benevento a scoprire qualcosa di questa città che per me è conosciuta solo dalla cartina geografica.
Mi ha incuriosito il tuo racconto, tanto da far nascere il desiderio di fermarmi casomai dovessi passare da quelle parti.
Mi piace la tua curiosità, mai morbosa, ma sempre profonda e interessata a capire le cose e le persone che incontri sulla tua strada.
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Che belle parole 🙂
sono contenta che ne ha dedicate a questa città, ancora poco conosciuta ma che offre tantissimo dal punto di vista storico architettonico. Si dice che Maleventum (così nominata dai sanniti) fu poi ribattezzata dai romani in Beneventum e quindi Benevento, in seguito alla vittoria sui primi e anche perché il nome portasse sfortuna.
Grazie di questa chicca che ci ha regalato, Benevento ed i beneventani ringraziano!
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