Per tutti, e non per tutti

La storia di questo articolo inizia con un equivoco. Di quelli che popolano in continuazione il frenetico chiacchiericcio social e che, se assecondati, distolgono dai fatti, distorcono le idee ed aizzano le parti.

Insomma è andata così. Una sera di febbraio mi imbatto su un post di Nicolò, appena tornato dalla Bosnia, un post che mi colpisce per densità ed incisività. Mi colpisce anche per la capacità rara di congiungere il percorso personale con le vicende del mondo, capacità che può formarsi solo nell’esperienza diretta, sul campo. Scrive Nicolò (e voglio riportarlo integralmente):

Qual è il tuo sogno? Arrivare in Italia.

Cosa vuoi fare in Italia? Vorrei trovare un lavoro, una piccola casa e portare qui la mia famiglia, mamma, le mie sorelle e la mia ragazza.

Da dove vieni? Afganistan.

Quanti anni hai? 19.

Quando sei partito? Luglio 2021.

Perché sei partito? Perché a casa ho i talebani, avevo un lavoro ma ho paura di morire. Non ho avuto scelta, sono partito, sono fiducioso di terminare il game e realizzare il mio sogno.

Sono stati giorni di fuoco, pieni di storie, di racconti di avventure, di mille pericoli nei boschi al ridosso di una linea di confine, quella che separa ? dall’Europa.

Da un anno a questa parte sono stato 5 volte in questo paese, ogni volta il mio cuore si riempie sempre più di emozioni aiutandomi a valorizzare ciò che ho qui, il semplice diritto di vivere sereno.

Leggo, rileggo e percepisco il ben noto solletico a dire la mia, lì, subito. La tentazione di cedere all’agevole mulinare di dita sulla tastiera, con cui si ha l’impressione di partecipare, di contribuire, di mettersi in pari con il mondo senza neanche alzarsi dalla sedia. Di solito mi trattengo, ma stavolta quel finale “valorizzare ciò che ho qui, il semplice diritto di vivere sereno” è fatale e mi scappa un commento: “Perché bisogna andare così lontano per vedersi da vicino.” Lo scrivo senza punto interrogativo, infatti non è una domanda bensì una risposta, e vuole essere un apprezzamento, un riconoscimento. Passano pochi minuti, sfrigola qualche reazione e si profila l’equivoco. Anche senza punto interrogativo il mio commento viene preso per l’esatto opposto di ciò che intendevo, e cioè per una polemica, per un invito a starsene a casa e pensare ai fatti propri. L’esatto opposto. Mannaggia, cerco di chiarire, per quel che serve, e mi riprometto (ancora una volta) di tenere meglio a bada le tentazioni social.

Però c’è da dire che senza quell’equivoco non mi troverei un mese e mezzo dopo in un capannone di Altavilla Vicentina a discorrere con Nicolò Magnabosco e con il suo amico Giampietro Dal Ben. La sera di una giornata di lavoro sta calando sul vicolo che si stacca dalla strada statale e ospita la sede dell’associazione ENERGIA & SORRISI odv. Una location che già racconta un po’ della loro identità: accessibili ma non convenzionali, visibili sì ma senza clamore, pronti a gettarsi nelle sterrate meno battute così come nei vialoni della grande attualità ma sempre a modo loro, seguendo un loro tracciato, perché “coe ciacole no se impasta fritoe”. E a che scopo? Per portare energia e sorrisi a chi ne ha bisogno, ti spiegano. Così, semplicemente.

Nicolò, 26enne con i piedi a Brendola, lo sguardo largo sul mondo e le mani su tutto ciò che riesce a spingere, o a trascinare, incarna perfettamente il nome dell’associazione e, se ti dice “Vieni a trovarci”, come fai a dirgli di no? Così eccoci qui, tra scaffalature gremite di merci e montagne di scatoloni in partenza per l’Ucraina, a conoscere il loro quartier generale ed il loro presidente, Giampietro appunto, a cui non servono domande per raccontarsi. Anzi, mentre snocciola la collezione di aneddoti, motivazioni e riflessioni che ha raccolto lungo la strada e fuori strada, è chi lo ascolta che, inevitabilmente, inizia a porsi domande.

La gente pensa in maniera asincrona” mi accoglie così, e poi “Neanche il cane muove la coda per niente”. Tutto nasce da una passione per i motori e per i rally, quelli che ti fanno arrivare dove non sembra possibile, oltre l’ultima sbarra, al di là del confine. Poi un giorno del 2002, nel gran mare di sabbia egiziano, capita che la moto di Giampietro si ferma nel mezzo del nulla e, dal nulla, compare un bambino di 3 anni, scalzo e stracciato, che con portamento fiero e orgoglioso si avvicina al forestiero per difendere il suo territorio. “Mi ha aperto gli occhi” dice Giampietro, estraendo uno pensiero che getta un ponte, inaspettato forse ma solido, tra i rally e la solidarietà: “Non possiamo lasciare dietro di noi solo copertoni sulla sabbia”. Da lì ad oggi è una cronologia di spedizioni ed iniziative che dal Nord Africa portano in Albania e in Grecia, toccano i terremoti di L’Aquila, Emilia e Durazzo fino ai 250 quintali di aiuti consegnati sulle macerie croate nel 2020, per arrivare più di recente ai confini della Bosnia Erzegovina, nel campo di Lipa presso Bihac, vicino ai terreni minati della guerra iugoslava, dove oggi folle di migranti afghani pakistani bengalesi africani sono costretti a fermarsi,  nelle morse di fame, gelo e politica, con la speranza di trovare prima o poi il loro momento: “Aspettando di tentare il game” spiega Giampietro, cioè l’ingresso in Europa.

A febbraio, quando scrive il post galeotto, Nicolò è appena tornato dal campo profughi di Bihac (o campo lager, secondo qualcuno), un universo remoto a 6 ore di strada da casa, più o meno come andare a Nizza o a Monaco di Baviera. Ma si sa, i vialoni dell’attualità si aprono e si chiudono in continuazione, a volte solo per il fatto di accendervi o spegnervi i riflettori, e così irrompe l’emergenza Ucraina. Un camion rimorchio pieno di aiuti è già pronto per un’altra spedizione quando i venti di guerra costringono a frenare. Ma insieme ai venti di guerra arriva una richiesta di aiuto, quella di don Francesco Andolfatto, originario di Tezze sul Brenta, ora parroco di Uzhgorod, cittadina ucraina al confine con la Slovacchia. Così verso metà marzo una colonna solidale di 6 bilici, 20 volontari, 1.250 quintali di beni e vari mezzi di supporto parte per quello che Giampietro chiama il Rally della Solidarietà: tappa a Uzhgorod, poi Leopoli e ritorno, tra estenuanti code in dogana e racconti sulla tratta di persone.

E adesso? E adesso siamo qui nel loro capannone circondati da scatoloni, tutti accuratamente confezionati ed etichettati per contenuto, perché non si perda nulla per strada, perché le cose arrivino dove serve che arrivino. Ma chi vi da una mano? “L’associazione ha 240 soci, con un gruppo operativo più costante di 20-30 persone. Siamo aperti a tutti coloro che vogliano dare una mano, però gente che voglia impastar fritoe, no far solo ciacoe. Tutto in autofinanziamento, naturalmente, chi viene con noi si paga tutto, anche il viaggio. Sappiamo che la solidarietà è difficile, che impone scelte e rinunce, spesso a carico di famigliari e amici, ma abbiamo anche imparato che chi dà è più fortunato di chi riceve, e che essere nati dal lato più comodo del mondo non è un nostro merito, così come non ha colpe chi è nato dall’altro lato”.

Usciamo dal magazzino che ormai è buio, nella penombra si intravedono i veicoli delle loro spedizioni, ognuno con un nome proprio, si scorgono stendardi, foto e oggetti che raccontano la loro storia, ognuno con radici e con significati, compresa una scultura metallica che sembra un diario e che si chiama Lucentezza, e sulla parete esterna del capannone risalta illuminata una gigantografia di Paolo Rossi, “la più grande del mondo” dicono.

Ci salutiamo in piedi nel vicolo, i rumori della statale poco distante sono smorzati dall’ora tarda e anche i frastuoni di guerre e campi profughi sembrano attutiti dal fresco primaverile che emana dal campo lì vicino. “È il nostro Giardino di Semplici” mi dicono. Figurarsi se era un banale pezzo di terra con un po’ di viti e qualche albero. Figurarsi se non aveva un nome. E perché si chiama così? “Perché è dedicato alle persone umili e semplici, che sono poi le persone che arrivano da noi. Però il vino, quanto sarà il momento, lo venderemo a 100 euro a bottiglia”. Anche il vino avrà un nome: “Non è per tutti” si chiamerà.

Pubblicato da Alberto Vicentin

Dal 1972 (cioè dall'inizio) residente a Brendola, nella provincia vicentina. Ingegnere chimico, consulente ambientale, giornalista pubblicista e... mi piace scrivere (www.spuntidivista.blog)

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