
Scalpiccia irrequieta sul retro del fast food, accanto al senso unico del drive-through. Trascina i piedi nell’erba che declina verso l’asfalto, senza mai staccarli dall’ombra verde scuro proiettata dal chiosco.
Fuma distratta qualcosa di tozzo e marrone, dicendo frasi solitarie e ammiccando al vuoto. Le mani contratte e sporche (ma sporche è forse solo un’impressione). I vestiti sgualciti, consunti, soprattutto larghi. Larghi non per la taglia ma per la magra consistenza di lei che li indossa, una magrezza assoluta e irrisolta che renderebbe cadente, inadatta qualsiasi copertura.
Si muove a scatti, si ferma senza sosta e si agita senza fretta, qui dietro le quinte variopinte di un’affollata area di servizio lungo la Freeway 5, da qualche parte tra Los Angeles e Sacramento, in un punto geografico che merita appena un nome, sperduto nel tempo e nella vasta valle piatta.
Non ha un’età, ma anche lei ha di sicuro almeno un nome, qualcosa di semplice e dolce, tipo Rose. Talvolta il nome è la conferma di un’identità, altre volte è un contrappasso, la matita rossa che segna l’errore, la semplice e dolce cornice di un ritratto contorto, e amaro.
Chissà da quanto è lì, Rose, e quanto ci resterà, con il suo mozzicone e la sua biografia di episodi, bottiglie, intenzioni smarrite e appiccicose casualità. Pensi che lì sia il posto in cui è solita chiedere uno spicciolo agli autisti in lento transito, dove bussa al finestrino per segnalare che esiste. Pensi che la conoscano tutti, quelli che lavorano lì, e che la lascino stare, “male non fa”, e pensi che in fondo, al di là delle ingombranti sfumature del disagio, quelli di passaggio possono scegliere di ignorarla, distogliere lo sguardo o anche darle qualcosa, un consiglio, un cartoccio di french fries, un dollaro stropicciato, e comunque finisce lì.
Perché Rose ti parla senza rivolgersi a nessuno, ti punta incontro decisa e passa oltre, ti guarda dritto in faccia senza vederti, i suoi occhi attraversano e aggirano, fanno una traiettoria barcollante e tornano ad inabissarsi.
Un’auto si ferma poco dopo il chiosco, forse per riporre monete, e Rose si avvicina. Immagini che batterà col dito sul vetro, che farà un cenno questuante all’autista, che magari si metterà davanti a sbarrare la strada. Invece Rose apre la portiera del passeggero, scivola dentro e scompare. A fianco, al posto di guida, si intravede un’altra donna, che non si scompone, parla con confidenza, quasi sorride e infine riparte.
Qui la storia si rivolta, si riscrive e diventa più leggera. Quasi scagiona l’osservatore e leviterebbe verso un inatteso lieto fine se non fosse per la zavorra incancellabile e irta dei dettagli.
Come lo sguardo che spaziando nel cielo vertiginoso della California s’impiglia in un ramo di cactus, tra i cavi di un traliccio di legno o nell’insegna scintillante del fast food.