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Giganti al passo

I primi a spingersi fin lassù, sul passo, furono i cacciatori delle valli del nord. Era un inverno gelido e secco, gli animali erano migrati prima del solito e i piccoli villaggi sentivano i morsi di una carestia cui la natura, stavolta, non sembrava voler porre rimedio.
Erano i tempi in cui gli dei risiedevano nelle cose, gli spiriti parlavano la lingua degli uomini e le leggende orientavano la realtà.
Fu in quell’inverno gelido e secco che presero a riecheggiare antiche storie sulle calde valli del sud, dove il sole intiepidiva i periodi più bui e il verde prosperava sempre e gli animali non migravano mai. Così i cacciatori si misero in marcia, addentrandosi in selvagge vallate mai battute, risalendo pendii di abeti spettrali e seguendo solchi di torrenti ghiacciati.
Per sei giorni cercarono la via, tra falsi sentieri, tracce mendaci e direttrici interrotte. Fu poco prima dell’alba del settimo giorno, al termine di una rigida, limpida notte stellata, allo stremo di forze e riserve, che finalmente giunsero al passo. Davanti a loro all’improvviso il cielo si aprì per poi espandersi giù giù verso il basso, verso le valli del sud.
Avanzarono stanchi ma rianimati dalla speranza, quando alla svolta di un colle laterale, stagliati contro la primissima luce di levante, li videro: videro i giganti.
Stavano lì, immobili, affiancati, silenziosi e possenti, i volti scuri e le espressioni severe, a guardia del passo.
I cacciatori indietreggiarono, spiarono, ascoltarono, attesero. Nulla accadeva.
I cacciatori diedero una voce, si annunciarono. Nessuna risposta.
Forse i giganti dormivano. O forse erano in agguato. O più probabilmente, nel silenzio immoto, la loro ira stava montando contro gli estranei visitatori che disturbavano la quiete e profanavano il regno.
E quando un sibilo tetro, quasi un lento e lugubre ululato, iniziò a risuonare sul passo, nei cacciatori i presagi si trasformarono in certezze e la paura virò in terrore.
Solo col passare del tempo, col maturare della luce, fu chiaro che i giganti erano di spalle, del tutto disinteressati agli estranei visitatori e assorti ad ammirare il sorgere del sole, e che sul sole tenevano fisso lo sguardo, ruotando loro stessi per seguirne il percorso durante la giornata. E, quando il sole fu allo zenit e i giganti si volsero finalmente verso il passo, fu chiaro che sui loro volti rosati si allargavano grandiosi, quieti sorrisi e che, insieme al vento leggero, risuonavano sublimi, mistiche canzoni di pace.
Ma tutto questo i cacciatori non lo seppero mai, perché già da parecchie ore si precipitavano attraverso abeti spettrali e lungo torrenti ghiacciati, per la via del ritorno, atterriti, a mani vuote e senza speranza.

San Francisco gloomy stories

I fantasmi di San Francisco non escono con il buio.
Escono un po’ prima del buio, quando un residuo di giorno, tenue e dimesso, si attarda tra le pieghe della città.

Escono quando la luce obliqua ridisegna le cose, le ricolloca deformate ma ancora riconoscibili, le stinge virando la tavolozza in tonalità di grigio, sfuma i profili e le certezze, riapre e rovescia il vaso dell’immaginazione.
Appena prima i fantasmi non c’erano e ora ci sono, lì intorno al Civic Center. Non li vedi arrivare né sciamare. Semplicemente ora ci sono come ci fossero sempre stati.

Eppure un attimo prima non c’erano. Da dove vengono tutte queste sagome lente? Dov’erano nascoste? Stavano in un loro rifugio invisibile o possedevano una loro autonoma invisibilità?

Come il vapore bianco che sbuffa dai chiusini in mezzo alle strade, anch’essi balzano allo sguardo, indugiano brevemente e presto svaniscono, diluendosi tra le ombre.

Un’ora fa Grove Street era un viale da passeggio e adesso è una corsia distopica popolata di personaggi senza nome e senza volto, aggrappati a carrelli della spesa, rivestiti di coperte sfibrate, coronati da berretti stanchi e trascinati su scarpe consunte e calzettoni color pavimento.

La Civic Center Plaza nella luce del giorno californiano era luogo di affari, vita cittadina e viavai di turisti e ora è uno spazio liquido e indefinito, estruso verso le cupe laterali e punteggiato di movimenti a scatti che sembrano fermi, di individui soli, in piedi curvi seduti o stesi, in attesa forse o forse no, di crocchi brulicanti e inerti, ingaggiati in faccende senza impegno e distratti a scrutarsi attorno. Gli estranei per loro non esistono eppure senti che nulla sfugge, che da un momento all’altro le distanze imponderabili potrebbero annullarsi e che gli spettri potrebbero assumere invadente consistenza materiale e sbatterti addosso.

Il marciapiedi di Larkin Street è un itinerario di cartocci, attraversamenti, cantilene reiterate e guaiti improvvisi, appostamenti e rimescolamenti. E lì, da un fagotto scuro ammucchiato addosso al muro del palazzo, esce e scivola un esiguo, luccicante ed esanime rivolo di vita che finisce nella canaletta di scolo e oltre, dentro i pertugi di una caditoia, verso i meandri del livello ancora più basso. Per chi si trova sul marciapiedi per caso o per errore, e transita veloce e guardingo, con la speranza di non essere visto, di essere lui un fantasma invisibile per i fantasmi di San Francisco, non resta che alzare un po’ il piede e passare oltre.

California sky

Scalpiccia irrequieta sul retro del fast food, accanto al senso unico del drive-through. Trascina i piedi nell’erba che declina verso l’asfalto, senza mai staccarli dall’ombra verde scuro proiettata dal chiosco.
Fuma distratta qualcosa di tozzo e marrone, dicendo frasi solitarie e ammiccando al vuoto. Le mani contratte e sporche (ma sporche è forse solo un’impressione). I vestiti sgualciti, consunti, soprattutto larghi. Larghi non per la taglia ma per la magra consistenza di lei che li indossa, una magrezza assoluta e irrisolta che renderebbe cadente, inadatta qualsiasi copertura.
Si muove a scatti, si ferma senza sosta e si agita senza fretta, qui dietro le quinte variopinte di un’affollata area di servizio lungo la Freeway 5, da qualche parte tra Los Angeles e Sacramento, in un punto geografico che merita appena un nome, sperduto nel tempo e nella vasta valle piatta.
Non ha un’età, ma anche lei ha di sicuro almeno un nome, qualcosa di semplice e dolce, tipo Rose. Talvolta il nome è la conferma di un’identità, altre volte è un contrappasso, la matita rossa che segna l’errore, la semplice e dolce cornice di un ritratto contorto, e amaro.
Chissà da quanto è lì, Rose, e quanto ci resterà, con il suo mozzicone e la sua biografia di episodi, bottiglie, intenzioni smarrite e appiccicose casualità. Pensi che lì sia il posto in cui è solita chiedere uno spicciolo agli autisti in lento transito, dove bussa al finestrino per segnalare che esiste. Pensi che la conoscano tutti, quelli che lavorano lì, e che la lascino stare, “male non fa”, e pensi che in fondo, al di là delle ingombranti sfumature del disagio, quelli di passaggio possono scegliere di ignorarla, distogliere lo sguardo o anche darle qualcosa, un consiglio, un cartoccio di french fries, un dollaro stropicciato, e comunque finisce lì.
Perché Rose ti parla senza rivolgersi a nessuno, ti punta incontro decisa e passa oltre, ti guarda dritto in faccia senza vederti, i suoi occhi attraversano e aggirano, fanno una traiettoria barcollante e tornano ad inabissarsi.
Un’auto si ferma poco dopo il chiosco, forse per riporre monete, e Rose si avvicina. Immagini che batterà col dito sul vetro, che farà un cenno questuante all’autista, che magari si metterà davanti a sbarrare la strada. Invece Rose apre la portiera del passeggero, scivola dentro e scompare. A fianco, al posto di guida, si intravede un’altra donna, che non si scompone, parla con confidenza, quasi sorride e infine riparte.
Qui la storia si rivolta, si riscrive e diventa più leggera. Quasi scagiona l’osservatore e leviterebbe verso un inatteso lieto fine se non fosse per la zavorra incancellabile e irta dei dettagli.
Come lo sguardo che spaziando nel cielo vertiginoso della California s’impiglia in un ramo di cactus, tra i cavi di un traliccio di legno o nell’insegna scintillante del fast food.

25 al setaccio

Lo so che le Partite Iva non festeggiano i compleanni, però mi sono reso conto che la mia ne ha appena fatti 25 e qualche pensiero ha cominciato a girarci intorno.

Non solo il più logico, che verte sull’inesorabile trascorrere del tempo e sul bisticcio insanabile tra gli orgogli dell’esperienza maturata e i fantasmi del futuro che si accorcia.

Anche altri pensieri hanno cominciato a girarci intorno, dall’idea che si ha da appena laureati (più o meno: salvare il mondo) al mondo che poi si incontra là fuori, dalle cose che sembrano vitali e invece non lo sono alle cose che sembrano insignificanti e invece pian piano costruiscono fondamenta ed elevano strutture. E ancora pensieri su ciò che si è trovato, su ciò che si è smarrito e su ciò che ancora manca.

Per farla breve (benchè breve non sia) cosa resta passando grossolanamente al setaccio 25 anni di Partita Iva?
Dei granelli trattenuti nelle maglie, ne prendo tre:

–         il PERCORSO, fatto di gradualità e pazienza, di attese, scatti, rallentamenti, sbandamenti, ripartenze, e sulla distanza, voltandosi indietro, tutto prende forma e va a conformare la cosiddetta professionalità, quell’ambiziosa ed impalpabile identità di sé stessi al lavoro che, socraticamente, tanto più è forte quanto più si sente fragile; d’altra parte non si dice che il bello del viaggio, ancor più che la meta, sia proprio il cammino?

–         la RETTITUDINE, che non è rigidità né piattume, è piuttosto lucida consapevolezza dello spazio in cui muovere le proprie scelte e il proprio stile, tecnico e commerciale sì ma soprattutto etico; uno spazio delimitato da due linee, mutevoli e tortuose, mai parallele, da una parte quella ambiziosa e inconcludente della perfezione e dall’altra quella ammiccante, insidiosa e creativa della realizzazione; la sfida è lì in mezzo, nello spazio in cui si incontrano ideali e realtà, onestà e concretezza, dove bisogna tenere il passo in equilibrio, cauto e saldo al tempo stesso, come su un sentiero di montagna tra la roccia ed il vuoto;

–         la DIGNITÀ, quella che distingue (ovvero all’opposto estingue) la persona, a maggior ragione la persona al lavoro; quella che non sta scritta negli organigrammi e non si misura con le etichette; una dignità che è difficile raccontare e che pur tuttavia quando capita di intercettarla si riconosce subito, nel saluto composto e accogliente della guardia all’ingresso della conceria, nelle parole dirette, impazienti del carrellista quando ti mostra come caricherebbe lui il camion, nei modi sbrigativi e appassionati dell’anziano muratore che non ha tempo da perdere ma… “guarda qua che bel lavoretto”.

Ecco, sì, potremmo dirla così: guarda qua che bel lavoretto.

Acqua Uno, campo di regata Fiumicello Brendola

Che anno corresse non saprei dirlo con esattezza. Eravamo da qualche parte negli anni ottanta. Per certo era metà agosto.
La regata si svolgeva controcorrente, partenza giù a valle in direzione della campagna, dal ponte della ex carrozzeria, e arrivo sotto il ponte del Fiumicello Brendola in centro a Vo’. Che poi, in quei giorni, era anche il centro del mondo: la sagra si appropriava di spazi, tempi e genti, l’incrocio e lo slargo della pesa si trasformavano in piazza, le strade e i campi appena mietuti si convertivano in posteggi, la pesca di beneficienza flussava pedoni di qua e di là della provinciale, le scintille sprizzavano alte dalla cappa in lamiera su cui si accanivano con sonore mazzate propiziatorie gli addetti alle luganeghe. Ma questa è un’altra storia.

La regata era per canotti a remi, di quelli che si gonfiano con la pompa a piede e, se gira male, direttamente a fiato, tradizionali protagonisti di facinorose imprese marinaresche da spiaggia estiva. Ebbene il canotto gonfiabile a remi, inspiegabilmente escluso dalle discipline olimpiche, ritrovò la meritata dignità in quell’edizione del nostrano Palio dei 4 Campanili, che riconfigurava in versione ludico-agonistica l’ancestrale, insanabile rivalità tra contrade. Nel palio si stemperavano in competizione sportiva, non senza sfoghi sguaiati, i radicati umori paesani che altrimenti, per il resto dell’anno, serpeggiano in diffidenza, in astio e finanche in baruffa. Quali siano i gravi torti e quali i peccati originali alla base di tanto livore tra campanili non è dato sapere, e forse nulla c’è da sapere se non che l’antagonismo, una volta innescato, foss’anche per burla o per errore, si autoalimenta volentieri e volentieri monta e si propaga, senza troppo chiedersi i perché e i percome. Magari a darne ragione basta la più semplice delle ragioni: per identificare noi stessi torna comodo identificare anzitutto gli altri, i diversi, i non-noi, e per comodità gli altri, i diversi, i non-noi sono brutti e cattivi così che noi, per salvifica contrapposizione, ci possiamo arroccare dalla parte giusta. Ricordo di un amico che giocava con noi a calcio e che, fuori da catechismo, venne preso a sassate perché aveva cambiato squadra, tradendo il campanile d’origine. Ma anche queste sono altre storie. Forse.

Torniamo in Acqua Uno nel campo di gara del Fiumicello Brendola, dove si stava celebrando la prima e unica edizione della regata del Vo’. Il livello era stato calibrato nei giorni precedenti mediante una diga di tavole (far rosta, in lingua locale), la quale, realizzata in prossimità del ponte di partenza, garantiva il pescaggio idoneo alla navigazione leggera. Idoneo quindi al canotto gonfiabile a remi.

Due equipaggi per campanile, ogni equipaggio composto da un vogatore e da un timoniere. Io stavo al timone, mio padre ai remi, e nel mio ricordo era gloriosamente evidente la funzione decisiva, epica del timoniere nel tenere la rotta, dettare il ritmo, schivare muri d’argine, scogli affioranti e cespugli d’alghe, studiare con sguardo fiero il concitato tifo fluviale. Poco conta che nel mio ricordo non vi sia traccia di come si fosse riusciti ad applicare un timone su un canotto gonfiabile (che poi: c’era davvero un timone? era piuttosto un terzo remo di appoggio ed emergenza? o me lo sto inventando?), ma non divaghiamo.

Si partiva a turno, in sequenza, come nelle cronometro di ciclismo. Ciascun equipaggio, al suo momento, si piazzava in Acqua Uno, perché il Fiumicello non è largo abbastanza per farci stare un’Acqua Due, e dallo start percorreva la distanza il più veloce possibile, fino al rustico arco di trionfo. Si tenevano i tempi che poi si sommavano a due a due, in ragione della contrada di appartenenza, così che alla fine la classifica accorpava le otto coppie concorrenti nelle quattro squadre di campanile. Più difficile a dirsi che a farsi, e infatti in quel pomeriggio ferragostano funzionò senza ricorsi né squalifiche. D’altra parte, un paio di giorni prima dell’evento ufficiale, c’erano state intense sessioni di prove libere, in cui tutto, proprio tutto, compreso lo scatenato tifo delle contrade, era stato meticolosamente testato. In gara ci furono distacchi importanti, certo, e nell’alveo ci furono sbandamenti, schizzi, piroette e rimbalzi sugli argini, ma nessun naufragio né derive verso valle, direzione Meledo.

E niente, com’è che mi trovo a ripescare questa storia?

Ah sì, mi è tornata in mente oggi passando sul ponte di Vo’. Butto l’occhio nel Fiumicello Brendola e penso che adesso, così com’è, non sarebbe possibile una regata di canotti gonfiabili. Eppure, a pensarci bene, facendo rosta nei punti giusti, chissà se non si riuscirebbe a ritrovare un filo di acqua uno. Questa sì che sarebbe un’altra storia.

Per tutti, e non per tutti

La storia di questo articolo inizia con un equivoco. Di quelli che popolano in continuazione il frenetico chiacchiericcio social e che, se assecondati, distolgono dai fatti, distorcono le idee ed aizzano le parti.

Insomma è andata così. Una sera di febbraio mi imbatto su un post di Nicolò, appena tornato dalla Bosnia, un post che mi colpisce per densità ed incisività. Mi colpisce anche per la capacità rara di congiungere il percorso personale con le vicende del mondo, capacità che può formarsi solo nell’esperienza diretta, sul campo. Scrive Nicolò (e voglio riportarlo integralmente):

Qual è il tuo sogno? Arrivare in Italia.

Cosa vuoi fare in Italia? Vorrei trovare un lavoro, una piccola casa e portare qui la mia famiglia, mamma, le mie sorelle e la mia ragazza.

Da dove vieni? Afganistan.

Quanti anni hai? 19.

Quando sei partito? Luglio 2021.

Perché sei partito? Perché a casa ho i talebani, avevo un lavoro ma ho paura di morire. Non ho avuto scelta, sono partito, sono fiducioso di terminare il game e realizzare il mio sogno.

Sono stati giorni di fuoco, pieni di storie, di racconti di avventure, di mille pericoli nei boschi al ridosso di una linea di confine, quella che separa ? dall’Europa.

Da un anno a questa parte sono stato 5 volte in questo paese, ogni volta il mio cuore si riempie sempre più di emozioni aiutandomi a valorizzare ciò che ho qui, il semplice diritto di vivere sereno.

Leggo, rileggo e percepisco il ben noto solletico a dire la mia, lì, subito. La tentazione di cedere all’agevole mulinare di dita sulla tastiera, con cui si ha l’impressione di partecipare, di contribuire, di mettersi in pari con il mondo senza neanche alzarsi dalla sedia. Di solito mi trattengo, ma stavolta quel finale “valorizzare ciò che ho qui, il semplice diritto di vivere sereno” è fatale e mi scappa un commento: “Perché bisogna andare così lontano per vedersi da vicino.” Lo scrivo senza punto interrogativo, infatti non è una domanda bensì una risposta, e vuole essere un apprezzamento, un riconoscimento. Passano pochi minuti, sfrigola qualche reazione e si profila l’equivoco. Anche senza punto interrogativo il mio commento viene preso per l’esatto opposto di ciò che intendevo, e cioè per una polemica, per un invito a starsene a casa e pensare ai fatti propri. L’esatto opposto. Mannaggia, cerco di chiarire, per quel che serve, e mi riprometto (ancora una volta) di tenere meglio a bada le tentazioni social.

Però c’è da dire che senza quell’equivoco non mi troverei un mese e mezzo dopo in un capannone di Altavilla Vicentina a discorrere con Nicolò Magnabosco e con il suo amico Giampietro Dal Ben. La sera di una giornata di lavoro sta calando sul vicolo che si stacca dalla strada statale e ospita la sede dell’associazione ENERGIA & SORRISI odv. Una location che già racconta un po’ della loro identità: accessibili ma non convenzionali, visibili sì ma senza clamore, pronti a gettarsi nelle sterrate meno battute così come nei vialoni della grande attualità ma sempre a modo loro, seguendo un loro tracciato, perché “coe ciacole no se impasta fritoe”. E a che scopo? Per portare energia e sorrisi a chi ne ha bisogno, ti spiegano. Così, semplicemente.

Nicolò, 26enne con i piedi a Brendola, lo sguardo largo sul mondo e le mani su tutto ciò che riesce a spingere, o a trascinare, incarna perfettamente il nome dell’associazione e, se ti dice “Vieni a trovarci”, come fai a dirgli di no? Così eccoci qui, tra scaffalature gremite di merci e montagne di scatoloni in partenza per l’Ucraina, a conoscere il loro quartier generale ed il loro presidente, Giampietro appunto, a cui non servono domande per raccontarsi. Anzi, mentre snocciola la collezione di aneddoti, motivazioni e riflessioni che ha raccolto lungo la strada e fuori strada, è chi lo ascolta che, inevitabilmente, inizia a porsi domande.

La gente pensa in maniera asincrona” mi accoglie così, e poi “Neanche il cane muove la coda per niente”. Tutto nasce da una passione per i motori e per i rally, quelli che ti fanno arrivare dove non sembra possibile, oltre l’ultima sbarra, al di là del confine. Poi un giorno del 2002, nel gran mare di sabbia egiziano, capita che la moto di Giampietro si ferma nel mezzo del nulla e, dal nulla, compare un bambino di 3 anni, scalzo e stracciato, che con portamento fiero e orgoglioso si avvicina al forestiero per difendere il suo territorio. “Mi ha aperto gli occhi” dice Giampietro, estraendo uno pensiero che getta un ponte, inaspettato forse ma solido, tra i rally e la solidarietà: “Non possiamo lasciare dietro di noi solo copertoni sulla sabbia”. Da lì ad oggi è una cronologia di spedizioni ed iniziative che dal Nord Africa portano in Albania e in Grecia, toccano i terremoti di L’Aquila, Emilia e Durazzo fino ai 250 quintali di aiuti consegnati sulle macerie croate nel 2020, per arrivare più di recente ai confini della Bosnia Erzegovina, nel campo di Lipa presso Bihac, vicino ai terreni minati della guerra iugoslava, dove oggi folle di migranti afghani pakistani bengalesi africani sono costretti a fermarsi,  nelle morse di fame, gelo e politica, con la speranza di trovare prima o poi il loro momento: “Aspettando di tentare il game” spiega Giampietro, cioè l’ingresso in Europa.

A febbraio, quando scrive il post galeotto, Nicolò è appena tornato dal campo profughi di Bihac (o campo lager, secondo qualcuno), un universo remoto a 6 ore di strada da casa, più o meno come andare a Nizza o a Monaco di Baviera. Ma si sa, i vialoni dell’attualità si aprono e si chiudono in continuazione, a volte solo per il fatto di accendervi o spegnervi i riflettori, e così irrompe l’emergenza Ucraina. Un camion rimorchio pieno di aiuti è già pronto per un’altra spedizione quando i venti di guerra costringono a frenare. Ma insieme ai venti di guerra arriva una richiesta di aiuto, quella di don Francesco Andolfatto, originario di Tezze sul Brenta, ora parroco di Uzhgorod, cittadina ucraina al confine con la Slovacchia. Così verso metà marzo una colonna solidale di 6 bilici, 20 volontari, 1.250 quintali di beni e vari mezzi di supporto parte per quello che Giampietro chiama il Rally della Solidarietà: tappa a Uzhgorod, poi Leopoli e ritorno, tra estenuanti code in dogana e racconti sulla tratta di persone.

E adesso? E adesso siamo qui nel loro capannone circondati da scatoloni, tutti accuratamente confezionati ed etichettati per contenuto, perché non si perda nulla per strada, perché le cose arrivino dove serve che arrivino. Ma chi vi da una mano? “L’associazione ha 240 soci, con un gruppo operativo più costante di 20-30 persone. Siamo aperti a tutti coloro che vogliano dare una mano, però gente che voglia impastar fritoe, no far solo ciacoe. Tutto in autofinanziamento, naturalmente, chi viene con noi si paga tutto, anche il viaggio. Sappiamo che la solidarietà è difficile, che impone scelte e rinunce, spesso a carico di famigliari e amici, ma abbiamo anche imparato che chi dà è più fortunato di chi riceve, e che essere nati dal lato più comodo del mondo non è un nostro merito, così come non ha colpe chi è nato dall’altro lato”.

Usciamo dal magazzino che ormai è buio, nella penombra si intravedono i veicoli delle loro spedizioni, ognuno con un nome proprio, si scorgono stendardi, foto e oggetti che raccontano la loro storia, ognuno con radici e con significati, compresa una scultura metallica che sembra un diario e che si chiama Lucentezza, e sulla parete esterna del capannone risalta illuminata una gigantografia di Paolo Rossi, “la più grande del mondo” dicono.

Ci salutiamo in piedi nel vicolo, i rumori della statale poco distante sono smorzati dall’ora tarda e anche i frastuoni di guerre e campi profughi sembrano attutiti dal fresco primaverile che emana dal campo lì vicino. “È il nostro Giardino di Semplici” mi dicono. Figurarsi se era un banale pezzo di terra con un po’ di viti e qualche albero. Figurarsi se non aveva un nome. E perché si chiama così? “Perché è dedicato alle persone umili e semplici, che sono poi le persone che arrivano da noi. Però il vino, quanto sarà il momento, lo venderemo a 100 euro a bottiglia”. Anche il vino avrà un nome: “Non è per tutti” si chiamerà.

Quello che possiamo imparare in un sabato pomeriggio

“Ho una proposta da farti”: quando una telefonata di Andrea Michelin, socio di Piano Infinito, instancabile organizzatore (per lo più dietro le quinte), esordisce così si può star certi che ha in mente qualcosa di interessante e di altrettanto impegnativo. “Organizziamo la presentazione di un libro, un sabato di aprile, tardo pomeriggio. Ci stai?” Solo per tenerlo un po’ sulle spine prendo tempo e dopo qualche giorno lo richiamo: “Avanti dai, facciamola.”

Il libro si intitola “Quello che possiamo imparare in Africa”, con sottotitolo “La salute come bene comune”. L’autore è Dante Carraro, sacerdote e medico, dal 2008 direttore di Medici con l’Africa CUAMM, e il 9 aprile, nella sede della cooperativa ad Alte di Montecchio Maggiore, sarebbe venuto lui in persona.

Per prepararci degnamente all’appuntamento buttiamo giù una scaletta, programmiamo i tempi e ipotizziamo l’affluenza, che per le 17.00 di un sabato di aprile è davvero un tiro di dadi. Ma soprattutto: come si fa a intervistare un autore sul suo libro? Bè, come minimo bisogna leggerlo prima, meglio un paio di volte. E così, inevitabilmente, ci si fa un’idea della persona, prima ancora di conoscerla dal vivo. Penso ai suoi ritmi serrati, ai viaggi, ai progetti e agli imprevisti, penso al turbinio di impegni di un’organizzazione attiva in 8 paesi dell’Africa sub-sahariana (Angola, Etiopia, Mozambico, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Sud Sudan, Tanzania, Uganda), con oltre 4.500 operatori sul campo (di cui 230 italiani), a supporto di 23 ospedali e 80 distretti (attività di sanità pubblica, assistenza materno-infantile, lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria), 3 scuole per infermieri (Sud Sudan, Uganda ed Etiopia) e un’università in Mozambico. Penso a tutto questo e guardo la sua fitta agenda nel sito del CUAMM: l’idea che ne esce è di una specie di personaggio mitologico, super attivo e preso da mille cose, uno che arriva di corsa, spreme al massimo il poco tempo disponibile e poi sparisce veloce verso la prossima tappa. Ovviamene non è andata così. È andata che Don Dante entra in sala con passo sciolto, si guarda intorno curioso, sorride e chiacchiera disinvolto, si sofferma ad abbracciare i vecchi amici e a salutare calorosamente i conoscenti, senza fretta, rallentando il tempo, dilatando le maglie dell’evento.

Viene il momento di accendere i microfoni e, dopo il benvenuto di Pino Strano, presidente di Piano Infinito, come sempre appassionato nel promuovere intrecci di solidarietà e cooperazione, è tempo di parlare del libro. Il quale libro, leggendolo, ispira via via tre aggettivi: NECESSARIO (perché effettivamente serve per capire, sentire e vedere nelle giuste dimensioni, per portare l’attenzione dove spesso fatica a soffermarsi), POTENTE (perché afferra e trascina il lettore con la forza dell’esperienza diretta, unisce il caso singolo con la grande vicenda umana, correla la salute dell’individuo con la salute comune, conduce a porsi domande e a mettersi in discussione) e COMMOVENTE (soprattutto in senso etimologico, per la garbata, energica e avvolgente capacità di CON-MUOVERE, muovere con).

Le parole di Don Dante, quelle scritte così come quelle dette durante l’incontro, scorrono leggere e dirette, hanno molto da esprimere e molto da condividere, cercano sentieri e trovano varchi, passano agilmente, con naturalezza, dal registro del manager alla confidenza informale, dal racconto del medico alla riflessione del sacerdote, fondendo il tutto in una narrazione unica, organica ed esaustiva proprio per la sua ampiezza e libertà. Una narrazione che diventa un viaggio, nella geografia e oltre, negli spazi sconfinati e complessi della cultura, della scienza e della coscienza.

Si parte dall’Italia, su cui il coautore del libro, Paolo Di Paolo, citando a sua volta Paolo Rumiz, si interroga così: “Da quali oscure radici proviene, in un Paese come l’Italia, spesso campanilista, aggrappato all’opportunismo e alla gestione del <particulare>, questa voglia di darsi a genti di terre lontane?” Si parte soprattutto dal Veneto, territorio laborioso certo ma spesso provinciale, che però sa esprimere “il senso forte del dovere” e “la cura dei più poveri vicini e lontani”, territorio in cui il CUAMM ha mosso i primi passi più di settant’anni fa grazie al suo fondatore, il medico Francesco Canova, e al suo storico direttore, monsignor Luigi Mazzuccato.

Si parte dalla provincia padovana e da un Dante Carraro adolescente che legge “I have a dream” di Martin Luther King e “La Ginestra” di Leopardi e che guarda con interesse a don Milani ed al parroco del paese, per poi ritrovarlo universitario, amante della medicina, alla continua ricerca della propria via e di risposte esaustive (cosa significa davvero fare qualcosa per gli altri?) fino al momento in cui, la mattina di un venerdì santo nella chiesa del suo paese, le due vocazioni parallele si congiungono e insieme diventano una vocazione più grande.

Si parte anche da Brendola e dal prof. Anacleto Dal Lago, con il suo profilo basso ed elevatissimo, la sua visione integrale della medicina, il suo impegno umile, discreto e autentico, senza troppe parole ma con grandi azioni. Dal Lago nel CUAMM ha tracciato una direzione fondante, “dal lamento al rammendo”, lasciando nel 2008 a don Dante, neo-direttore, un consiglio memorabile: “Salvaguarda il Cuamm dal parlare troppo: i problemi più che parlati vanno studiati, vanno approfonditi, vanno capiti, vanno ascoltati. (…) Preoccupati quando si parla tanto e si studia poco”.

La narrazione ci porta inesorabilmente in Africa, il continente nero dai mille colori, da osservare e ascoltare, da ignorare e conoscere “come una persona”, al punto che nel suo prima viaggio Don Dante capisce “come l’Africa, per quel che mi riguarda, assomiglia un po’ a una ragazza con cui esci la prima volta per andare al cinema. A fine serata ti domandi se ti è simpatica, se sei riuscito a capire chi sia davvero. E sei contento, ma parecchio confuso. Ecco, con l’Africa è stato così: dal primo viaggio resti talmente stordito, con la sensazione di non avere capito niente o quasi, e nello stesso tempo tanto affascinato, hai bisogno di una seconda volta. E, naturalmente, non basterà nemmeno quella”.

Da là, dall’altra sponda del Mediterraneo, anche l’Europa assume nuovi colori, si rianima di luci e ombre, è un protagonista che può e deve fare molto ma che stenta a capire e gestire il fenomeno migratorio e le sue origini: “Voglio bene all’Europa, all’idea dell’Europa” scrive Don Dante “e continuo a difenderla, a patto che essa sappia però difendere l’umanità”.

Se questo viaggio ha una destinazione ideale, la troviamo già nel sottotitolo del libro, in quell’accezione di salute come bene comune, di un servizio sanitario che “è efficace se universalistico, cioè se tutta la popolazione ne può fruire” e “solidaristico, perché sostenuto attraverso la fiscalità generale”, diventando “un’espressione di solidarietà tra sani e malati, tra abbienti e meno abbienti, e tra le diverse generazioni”. Di più: cogliendo i sofferti insegnamenti di epidemie e pandemie, guerre e migrazioni, disastri naturali e crisi climatiche si arriva alla ONE HEALTH, cioè alla salute come “una cosa sola, quella della specie umana, animale e ambientale insieme”.

È bene ricordare che il libro si può comprare e che i proventi sono destinati a sostenere la campagna: UN VACCINO PER “NOI”, perché “davanti a un’emergenza globale, l’unica risposta possibile deve essere globale. L’Africa non può restare esclusa. Vaccinare medici, infermieri e la popolazione africana è un atto di solidarietà e insieme di sicurezza per tutti, anche per noi: solo così riusciremo a interrompere la diffusione del virus e delle sue varianti. Serve un piano vaccinale anti Covid in Africa. Servono più dosi. E queste dosi, poi, devono diventare vaccinazione vera”.

Due annotazioni finali.

La prima: se passate per Gambella, in Etiopia, dove c’è un enorme campo profughi sud-sudanesi, non mancate di far tappa nella piccola caffetteria che un gruppo di donne positive all’Hiv ha aperto, anche con l’aiuto del Cuamm; sulla bontà del caffè garantisce Don Dante.

La seconda: la prossima volta che mi arriva una telefonata di Andrea faccio a meno di rispondere, lascio passare qualche ora, ma solo per tenerlo un po’ sulle spine, e poi lo richiamo.

Tre anatre e un pesce

Oggi la Risarola si è spenta. Un lento affievolirsi della corrente, un graduale riemergere dell’alveo, prima i piedi degli argini, poi via via isole e penisole di fondale, ed oggi si è fermata del tutto.

Com’era successo nell’estate di diciannove anni fa, quella volta che incontrai le tre anatre e il pesce. Come non era mai successo prima a memoria d’uomo, o almeno così si disse allora. E allora di memoria ce n’era di più, c’erano archivi di ricordi ed esperienze che il tempo si è fatalmente portato via. C’era, tra tante, la memoria di mia nonna, che da mezzo secolo presidiava il corso della roggia e che oggi non c’è più.

C’era anche, fino alla secca del 2003, la certezza che la Risarola non si sarebbe mai seccata, che il suo placido, discreto flusso di acqua giovane, adagiato nel solco tra ali di campagna, non si sarebbe mai arrestato, che le sue risorgive, appena 1500 metri in linea d’aria, direzione nord-ovest, mai avrebbero smesso di risalire e ribollire dai cunicoli del sottosuolo. D’altra parte ci sarà un motivo se si chiama Risarola, buona in un qualche passato per garantire l’allagamento delle risaie (così si narra, e chissà se è vero), e ci sarà un motivo se questo posto si chiama Fangosa e galleggia su un letto d’acqua, esposto in un qualche passato a ricorrenti e invadenti alluvioni, finché il grande bacino venne costruito a monte per imbrigliare ed ammansire le furie torrentizie (così si narra, e può essere vero).

Acqua, quindi, a segnare il territorio ed a bagnare le sue storie. Di quando i tosi andavano giù al canale, in fondo dove si tuffa la Risarola, e là anche loro si tuffavano e sguazzavano. Di quando nei fossi con le nasse si pescavano marsoni, gamberi e addirittura anguille e sotto il portico si faceva la frittura di campagna col pescato di giornata. Di quando alla molonara da Mario le angurie stavano in fresca direttamente in roggia, a galla nella corrente, trattenute da una recinzione anfibia e sempre pronte per la selezione acustica (toc toc) ed il taglio artistico sul tavolone con la cerata. Di quella volta che un maiale scappò dal recinto e tanto corse in mezzo ai campi che finì nelle risorgive dell’Anguissolo, fratello minore della Risarola, dove cadde nel pantano gorgogliante e nessuno lo trovò più. E di quando, nell’estate del 2003, alla prima e, fino a ieri, ultima secca degli annali della Risarola, vidi in una pozza d’acqua ormai ferma un pesce girare in tondo, e di tanto in tanto lanciarsi verso un rigagnolo di collegamento con una pozza più grande, una sorta di guado al contrario, ma ogni volta virare e tornare indietro perché lì, appostate al varco, per dispetto o per orgoglio, stavano tre anatre, guardinghe e chiacchierone, pronte a centrare a beccate il pesce non appena si avvicinasse nell’acqua bassa. Allora presi una frasca e, agitandola verso le anatre, le allontanai per qualche istante, giusto il tempo di far passare il pesce. Lui se ne andò veloce, senza voltarsi, e loro mi starnazzarono qualcosa di facile interpretazione.

Negli anni a seguire, sbirciando in roggia, mi è capitato talvolta di aspettarmi che il pesce tornasse a salutare e che le tre anatre impettite mi aggredissero a beccate. Naturalmente non ho più visto né l’uno né le altre. Ma in effetti neanche la Risarola spenta avevo più visto da allora. Fino ad oggi.

Fuochi e fumi in aula magna

Entrano che sembrano in gita. Fluiscono in gruppo tra porte e file di sedie come a cercare un covo. Parlamentano in un incessante sottofondo di brusii e squilli. Prendono posto con un loro ordine logico, determinato, per quanto imperscrutabile.

E così siamo pronti: tre classi di prima media (sì, giusto, secondaria di primo grado), una settantina di un-dodicenni riuniti a parlare di fuochi, incendi e sicurezza, tutti insieme, fuori dalle rispettive aule ma dentro la loro scuola. Neanche a farlo apposta (e davvero nel programmare il giorno non ci avevamo fatto caso) proprio oggi, nella GIORNATA MONDIALE PER LA SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO. Che se ha un senso, quel senso sta anzitutto tra i banchi di scuola.

Colpisce quando una ragazzina alza la mano per dire che l’acqua spegne il fuoco perché, col suo vapore, lo soffoca. Colpisce quando un ragazzino agita la mano per dire che il terzo lato del triangolo del fuoco è il calore. Colpisce quando, tra video, disegni ed aneddoti, una selva di braccia sbandierate attende tenace un cenno di via libera per parlare di fumo che va in alto perché è caldo, di fazzoletto bagnato da mettere davanti alla bocca, di fuoco buono e fuoco cattivo, di cariche elettrostatiche e di coperta antifiamma. La quale coperta, sarà perché è leggera, sarà perché è piacevole al tatto, passa di mano in mano finché da laggiù una voce timida e nitida chiede: “Ma… questa si può avere anche a casa?”

Allora dai, già che ci siamo facciamo pure l’esperimento finale, direttamente lì dove ci troviamo: chiudiamo le porte, accendiamo la macchina del fumo, aspettiamo qualche minuto e vediamo come diventa la nostra aula magna quando c’è la nebbia, così tanta nebbia che non si vedono più le porte, le sedie accanto e quasi quasi neanche il quaderno appoggiato sulle ginocchia. Non sembra un posto diverso?

Finisce con le tre classi che a turno si alzano ed escono, sicure e vocianti nel fumo fitto verso il resto della loro giornata. Tutti sani e salvi.

Anche se… bè, all’inizio dell’incontro, giusto per rompere il ghiaccio, si era partiti da quattro domande facili. “Quanti di voi sono in prima media?” Tutti. “Quanti di voi non vedono l’ora che arrivino le vacanze estive?” Tutti. “Quanti di voi vogliono fare i vigili del fuoco?” Uno, convinto ma uno solo. “Quanti di voi vogliono accendere fuochi che poi gli altri dovranno spegnere?” Eh, insomma, tra battute e risate, ad occhio qualche decina. Ecco: curiosità, prontezza, energia e partecipazione non mancano di certo a questi un-dodicenni, si tratta di farne buon uso. Proprio come per il fuoco. D’altra parte, la scuola non è lì per questo?

Il conto, prego

Pausa pranzo al bar, come una volta, tra un corso e un sopralluogo.
Sullo schermo appeso alla parete, volume basso per non disturbare ma non abbastanza da nascondere, racconti di bombe, ospedali pediatrici e macerie.
Al tavolo vicino voci nervose, indignate, parole di dura condanna e rivendicazioni di giustizia per gli aumenti dei prezzi del carburante.
Nel cellulare una coda di mail ansiose, disagevoli e sofferte sulla sofisticata modulistica indispensabile per autorizzare, entro ieri, l’accesso della ditta in cantiere.
Sullo schermo, lo stesso, scene di piazza festante, tra vessilli identitari e slogan accorati a celebrare il trionfo nella partita di calcio.
Il conto, prego.

La lontra che non c’è

Da queste parti la lontra s’incontra spesso. All’ingresso di un palazzo antico che ospita un museo, nell’insegna di una trattoria e sul manifesto di un evento, nei segnavia e nelle targhe che raccontano i luoghi, nei libri di storia locale e nelle locali storielle di strada. Eppure da queste parti la lontra non c’è. O perlomeno non c’è più.
Curioso che per meritare attenzione e credito capiti di dover svanire.
Si dice comunque (e chissà se c’è del vero) che la lontra sia addirittura l’artefice della vallata. Un tempo lontano qui era tutto lago, dicono, un invaso ampio e placido alimentato dai tanti torrenti e arginato a valle da una diga naturale, giusto all’imbocco dello stretto canalone in cui le due ali di montagne convergono e quasi si chiudono, strozzando in un’orrida feritoia la via d’uscita. Per andarsene, sbattendo e spumeggiando tra pareti a picco, l’acqua doveva prima arrampicarsi fin sopra la diga. Qui, sulla barricata ancestrale che governava il lago, proprio qui una lontra venne ad insediarsi, e scavando spostando trafficando armeggiando con terra tronchi pietre e ramaglie tanto fece che finì per aprire un varco e il varco presto si spalancò e liberò l’acqua del lago. C’è da immaginarsi lo scroscio crescente ruscellare giù per il canalone mentre alle sue spalle il fondovalle, pur fradicio, veniva finalmente alla luce, con la lontra aggrappata sulla sponda ad osservare perplessa e a chiedersi: “E mo’?”

E mo’ la spianata valliva era bonificata ed ecco che arrivarono i fiori e gli alberi e poi gli animali di terra e tra questi l’animale più intraprendente e invasivo di tutti, il quale costruendo case tracciando strade coltivando campi imbrigliando acque e domando i boschi si fece largo. La lontra dovette ritirarsi in disparte, e dove intralciava fu allontanata, e dove infastidiva fu cacciata.

Si dice (e chissà se c’è del vero) che l’ultimo avvistamento risalga a meno di un secolo fa, durante i lavori di costruzione di un’altra diga, artificiale stavolta, in mezzo all’orrido canalone. Fu un operaio del cantiere a scorgerla, pare, proprio sulle sponde del bacino in formazione, e questi ne diede festosa e orgogliosa notizia a tutti i compagni, “Ho visto una lontra!” annunciava, non prima di averla raggiunta con una fucilata. Si sa mai che svicolasse fuori vista o che facesse danni. Era l’ultima e da allora non se ne videro più da queste parti, se non disegnate, scolpite e narrate.
Si dice però (e chissà se c’è del vero) che lassù fuori mano, nei pietrosi ristagni d’alta quota, nelle cascate nascoste dentro le inaccessibili forre boscose e nelle cavità labirintiche che solleticano il ventre della montagna, lassù qualche lontra ci sia ancora. Non vista, non udita, saggia discreta e paziente. In attesa, forse, che torni il suo turno.