“Pazzesco, Vladimir, chi l’avrebbe mai detto? Sta succedendo ancora!” “Succederà sempre, Estragon, ancora e ancora. Finché morte non ci separi. Tutti.” “Ma allora, Didi, la storia non ha insegnato proprio nulla!” “La storia da sola non è mica in grado di insegnarsi, Gogo.” “E a che servono millenni di errori e progressi?” “Non è la storia a insegnare, è chi la insegna. Ognuno impara ciò che incontra durante la sua breve vita. E se genitori, scuola e società non raccontano oggi le cose di cento anni fa, oggi le cose di cento anni fa manco esistono. E se successero nere e le raccontano bianche, oggi bianche sono. E se non successero per nulla ma le raccontano lo stesso, oggi sono la storia vera.” “Insomma, Didi, che dovremmo fare?” “Aspettiamo che passi, Gogo. Magari non oggi, domani forse.” “E se domani non ci saremo più?” “Ci sarà qualcun altro ad aspettare.”
Ci sono date che ti si imprimono addosso e poi risuonano ogni anno come anniversari. Spesso incomprensibilmente e inconsapevolmente, a volte per ragioni che, prese in assoluto, appaiono del tutto inconsistenti. Ecco, a me capita con il 5 febbraio. Quasi imbarazzante nell’impersonalità delle sue ragioni, eppure capita. Ammetto che non sempre focalizzo subito le radici di questa data, anzi quando puntuale arriva e risuona devo fermarmi un attimo per esplorare gli echi della memoria, ma oggi cade il suo mezzo secolo ed è più facile. Il 5 febbraio è il compleanno (pensa un po’) del decreto legislativo 22 del 1997, meglio noto come Decreto Ronchi. Quello che rifondava la disciplina sulla gestione dei rifiuti, introduceva un nuovo sistema per la loro classificazione e ridisegnava le regole per chi li produce, chi li trasporta e chi li recupera e smaltisce. E che sarà mai?
Mah… sarà che di lì a pochissimo sarebbe terminata la mia epoca da studente e iniziata quella da lavoratore, e che entrambe le epoche sono improntate sulla tutela ambientale. Sarà che quella legge cadeva con provvidenziale tempismo nella mia agenda di velleità professionali, orientate più o meno a salvare il mondo. Sarà che qualche mese più tardi mi sarei ritrovato a trascorrere file intere di giornate nei meandri dell’istituto di via Marzolo a tradurre i CIR in CER, che detto così suona un po’ dysney, ma in realtà fu una gran fatica, piena di scrupolo ed equilibrismo, discussioni, tocchi di fantasia e implicazioni sfuggenti. Fatto sta che sono passati 25 anni, il decretoronchi è stato fagocitato dal testo unico del 2006 e l’ambiente, così a spanne, non sembra del tutto al sicuro. Sono passati 25 anni e il 150106 è ancora il rifugio peccatorum di molti retrobottega industriali (guarda che puoi metterci solo imballaggi di scarto / ma va che è pur sempre plastica / però non è imballaggio / e che cambia? /per andare lì inoltre dovrebbe essere di più materiali non divisibili / non rompere che me li portano sempre via così e senza far rogne), mentre qualche zelante cultore si ostina a triturare contenitori sporchi per indagare l’esatta concentrazione di residui sospetti nella massa globale. Sono passati 25 anni e questo 5 febbraio risveglia domande, sul mio percorso (ma qui glisso), su quanto siamo diventati bravi a maneggiare i rifiuti e sull’ambiente in generale, che così tante buone intenzioni, scritte nelle leggi e piantate nelle persone, promettevano di preservare e proteggere. Domande che bastano a se stesse e non si aspettano risposte.
Risposte che tanto non avrei.
(E comunque basta, dai, che stasera c’è la finale di sanremo)
“Com’è il sentiero? Possono farlo anche i comuni mortali?” “Ma sì, cosa vuoi che sia. Andate, è un bel giro. No come i soliti giretti che fate voi.” “Proprio fin su in cima in cima, a 2.900? Non è per montanari esperti?” “Ma no, figurati. Una passeggiata per tutti. Ascolta, poco dopo il passo Mulaz invece di scendere giù dall’altra parte per il rifugio, prendete la deviazione su a sinistra. Giusto mezz’oretta, un tratto comodo, e arrivate proprio sulla vetta.” “Senza ferrate o tratti difficili?” “Macché difficili. Vai tranquillo. Lo fate sì. È salito su anche il mio cane.” L’azione motivazionale è compiuta. Bisogna dire che il cane citato, a vederlo, non fa venire in mente gli stambecchi d’alta quota, né per stazza oggettiva né per agilità apparente. Pertanto, se ce l’ha fatta il suo cane, vuoi che non ce la faccia io? Dove non arriveranno le gambe, arriverà almeno l’orgoglio. Lui si chiama Bruno, come il colore, non più marrone né grigio e non ancora nero. Come l’orso e come le tonalità che prende il cielo al tramonto, ancor più in montagna, specie nei versanti meno esposti. Come l’effetto cromatico che si conferisce ai metalli con un trattamento di superficie, la brunitura appunto, per ottenere estetica e, insieme, resistenza. Ad ogni domanda Bruno restituisce un’informazione utile e una bacchettata, faceta sì ma pertinente, da pensarci su e sentirsi, al tempo stesso, presi e portati in giro. “Andate qui, per questo percorso, ne vale la pena, piuttosto che andare per di là, dove piace a voi, che non so come faccia a piacervi. Ma sì, è una cosa facile, bei posti, mica roba complicata, però poi bisogna vedere: so io a che ora partite voi la mattina? In montagna si parte presto, si va di buon’ora e per pranzo si è già tornati, voi per ora di pranzo forse vi mettete in strada. Lo so io che voi siete… di un’altra categoria.” Ad ogni domanda un po’ ti accoglie e un po’ ti aspetta al varco, in un riverbero delle poliedriche sfaccettature dolomitiche, sempre in equilibrio tra maestosa bellezza senza tempo e imminente, rovinoso sgretolamento, tra salde tracce solcate da migliaia di passi esperti e l’incognita del vuoto a meno di un inciampo. Dietro ogni risposta c’è una storia di vita vissuta, un corredo di pensieri raccolti per la via e messi insieme come fascine per accendere il fuoco. Ti ascolta, con i tempi di una camminata nel bosco, poi risponde, con i toni degli alberi che frusciano e dei ruscelli che gorgogliano, e nel frattempo, sempre, ha gli occhi che ridono. Sempre. Così arriviamo su al passo Mulaz, dopo tre ore e novecento metri di dislivello, partendo dalle meraviglie della Val Venegia e piegando su a sinistra per i primi pendii boscosi del sentiero Quinto Scalet per poi serpeggiare tra esplosioni floreali, erte pietrose e marmotte burlone fino ai ghiaioni alti con pareti e panorami a sbalzo. Così arriviamo su al passo, già si intuisce dietro ogni roccia il miraggio del rifugio Volpi al Mulaz ed ecco finalmente la fatale, temuta deviazione. Il cartello segna un’ora, la mappa scandisce trecento metri di ulteriore ascesa, l’orario incombe (malgrado le migliori intenzioni compatibili con la categoria di appartenenza) e in cielo occhieggiano e sventagliano nuvole birichine, di quelle che nei pomeriggi estivi da queste parti si assembrano con mirabile premura e raramente mancano l’appuntamento con lo scroscio. Allora ci siamo, le gambe esitano, l’orgoglio sobbolle e… no dai, meglio tirare avanti fino al rifugio. Poi più tardi, di ritorno… no dai, meglio scendere, oggi non si riesce ad arrivare in vetta, non stavolta, sarà per la prossima magari. I piedi già assecondano la direzione del valico ma la coda dell’occhio indugia sulla deviazione, quasi a scusarsi, a costituirsi, ad appuntare una promessa. Ed è lì che per un istante lo vedo, proprio all’inizio del tratto che si arrampica su in vetta al Mulaz. È senz’altro il cane di Bruno, che zampetta e scodinzola in salita, saltella tra i sassi e, prima di scomparire ad una svolta, mi lancia uno sguardo fuggitivo. Uno sguardo di rimprovero e di sufficienza, ma con gli occhi che ridono.
“Guarda avanti. Cosa vedi?” “Nulla. Non si vede niente.” “Guarda meglio, dimmi cosa vedi.” Silenzio di aria infranta sul parabrezza e pneumatici che raschiano l’asfalto. Poi: “Vedo… nebbia, parecchia.” “Nebbia sì. Solo quella?” “E un po’ di strada.” “E basta?” “E basta.” Silenzio di motore a basso regime e qualche colpo di tosse. Poi: “Cosa fanno secondo te?” “Eh? Di chi parli?” “Delle cose che vedi.” “Della nebbia e della strada?” “Sì, secondo te cosa fanno?” Silenzio di dossi, avvallamenti e scricchiolii dell’abitacolo. Poi: “Boh, forse la nebbia inghiotte la strada.” “Oppure?” “Oppure?” “Non è che magari sia la strada ad attraversare la nebbia?” “Ma la strada è ferma.” “Pure la nebbia è ferma.” “In effetti.” Silenzio di terra umida e sole nascosto. “E insomma, cosa vedi là davanti?” “Un po’ di strada, e nebbia, parecchia.” “E noi qui a guardare.” “Per forza, altrimenti non si vedrebbe niente.” “Ah, ecco!” Silenzio di nebbia.
L’ampio corridoio di manovra come aula. Le casse di legno, a spina di pesce, come panche. Le scaffalature come sfondo scenografico.
La prima volta, a ottobre 2020, si pensava fosse una circostanza straordinaria, destinata a rimanere isolata. La seconda volta, a luglio 2021, dava già l’impressione di tornare in un luogo famigliare, quasi fosse normale essere lì a fare un corso. La terza volta, se ci sarà, sembrerà forse di averla sempre fatta lì la formazione, e si affievolirà un po’ il ricordo delle lezioni in mensa, con olio e aceto a contendere i tavoli alle dispense e con gli aromi delle pietanze a contendere l’attenzione al docente.
Ma se ci sarà una terza volta l’auspicio è che sia per scelta, e non per il protrarsi dell’emergenza sanitaria covid19 e delle correlate regole anticontagio. Sì perché, a convertire il magazzino in un’aula, è sempre lei, l’ingombrante e persistente pandemia, con le sue pretese di distanziamento e di mascheramento. Per non mettersi fuori in piazzale (e perché no, meteo permettendo?), solo lì in magazzino c’è spazio a sufficienza, ma era già un sollievo l’autunno scorso poter tornare finalmente ai corsi in presenza. Certo, le casse nate per trasportare cilindri metallici non sono esattamente poltrone super-comfort, i lucernari del capannone non hanno gli oscuranti e laggiù, nelle ultime file, il telo di proiezione diventa piuttosto piccolo e la voce del docente alquanto ovattata: situazione che impone un supplemento di energia e fantasia per tenere agganciati i discenti, soprattutto nei corsi sulla sicurezza che notoriamente, per legge, devono essere tediosi e soporiferi.
Eppure la location alternativa offre anche stimoli inaspettati. Non solo per coloro che, malgrado la longeva militanza aziendale, non si erano mai avventurati oltre gli uffici e scoprono così quali cose mirabolanti si celino dietro quel muro. Lo stimolo più curioso, al limite del sovversivo, è proprio l’atto insolito di sedersi in magazzino. Sostare in un luogo nel quale, normalmente, si passa e basta. Trattenersi dove in genere si transita distrattamente, o non si transita affatto. Addirittura sedersi, cioè abbassare di qualche decina di centimetri il proprio punto di vista e da lì, inevitabilmente, guardarsi intorno, cogliendo in diversa prospettiva oggetti e spazi, situazioni e idee.
Scappa spesso di suggerirlo ai corsi, soprattutto con i preposti: prendi una sedia, mettila in un posto qualsiasi del tuo ambiente di lavoro, un posto in cui di solito non ti fermi, un angolo fuori mano, dietro una macchina, vicino ad un passaggio, siediti lì e guardati intorno. Probabilmente ti prenderanno per matto, ma basteranno pochi secondi per vedere cose mai viste prima. Non proprio “navi in fiamme al largo dei bastioni di Orione”, ma quasi. E senza nemmeno uscire dal reparto in cui passi le tue giornate da anni, di cui pensavi di conoscere tutto, in cui eri convinto che “è sempre stato così” e che “non c’è altro modo”.
Quindi, che siano magazzini, casse, scaffalature o qualsiasi altra combinazione di fattori, che sia per necessità pandemica o (auspicabilmente) per scelta didattica, ben vengano gli spostamenti di punto di vista, quelli che mostrano come non sia sempre stato così, come ci siano altri modi. Soprattutto nei corsi sulla sicurezza che notoriamente, per legge, devono lasciare un segno.
Quando un consulente per la sicurezza viene chiamato in fabbrica di venerdì, tarda mattinata, a fine luglio, di solito è per qualche disgrazia. Perché luglio fa male, perché se non ci sono disgrazie c’è altro a cui dedicarsi, perché avere tra i piedi il consulente è un po’ una seccatura e lo fai venire solo se proprio proprio ti tocca. Ancor più a ridosso delle ferie, con tutto quel che c’è da finire, spedire e sbrogliare. Anche per questo, più di qualsiasi incidente, è straordinario l’evento per cui oggi sono stato convocato a Vicenza in Italbras SpA: nel piazzale dell’azienda, appena fuori dal magazzino, insieme ai dipendenti e alla direzione, si celebravano i 5000 giorni senza infortuni. 5000 giorni, cioè quasi 14 anni, senza che nessuno si faccia male! E che sarà mai? Ce n’è di aziende che di infortuni non ne hanno mai avuti nella loro storia intera, tipo attività d’ufficio, negozi, anche tanti bar e ristoranti. Qui viene il bello: Italbras è un’industria manifatturiera che si muove tra metallurgia, chimica e meccanica, ci lavorano circa 60 persone e tra fusioni estrusioni trafilature decapaggi e sostanze varie ed eventuali non si fa mancare nulla. Quel che si fa mancare, dal novembre 2007, sono gli infortuni. Cos’ha allora di speciale quest’azienda vicentina adagiata sulla sponda del Retrone, appena fuori dalla città, con finestre che guardano da un lato la zona industriale e dall’altro le verdi onde dei Colli Berici? Bè, bisognerebbe chiederlo a loro, a chi ci abita dentro, all’amministratore delegato Bruno Ceccon e al suo predecessore Warwas Torsten, alla HSE manager Barbara Benetti e alla RSPP Paola Peserico, ad ognuno degli addetti che ogni giorno, da 5000 giorni, ci entra, ci lavora e ne esce sano e salvo. Solo loro lo sanno. Da consulente posso dire che, così come gli incidenti sono l’esito di una combinazione complessa e concatenata di cause scatenanti, la mancanza di incidenti è una combinazione altrettanto complessa e concatenata di disinneschi. E che un ruolo decisivo, preponderante lo giocano le persone, i loro comportamenti, la loro percezione del rischio, la posizione che riservano nella loro scala di importanza alla tutela propria e degli altri. Al punto che, a costo di essere sbugiardato, mi viene da dire che negli infortuni molto spesso lo stesso infortunato, un istante prima di farsi male, può scegliere di non farsi male. Quindi sì, la sicurezza è una scelta, ed evidentemente in Italbras l’hanno fatta.
P.S. Siccome al consulente per la sicurezza, a forza di gestire disgrazie, tocca anche l’ingrato compito del menagramo, solo una sommessa raccomandazione per un’azienda che da 5000 giorni non ha infortuni: non pensare che gli infortuni non esistano. Anzi, solo grazie alla quotidiana, scomoda, incrollabile ed infausta consapevolezza che in qualsiasi momento il virtuoso conteggio di giorni incolumi può interrompersi, il virtuoso conteggio può andare avanti. Appuntamento quindi al 2035, per i 10.000!
La via del mare si stende tra la riva adriatica e la prima schiera di palazzi continentali, con le facciate impettite a guardare il largo. Ai piedi i palazzi della prima schiera si frantumano in tende, insegne e tavolini, ormeggi per la gente appena oltre gli ormeggi per le imbarcazioni. Già la seconda schiera di palazzi con cui Trieste fronteggia il mare è città interna, già cuore pulsante nell’ombra dietro il luccichio esposto al sole. Che poi, in fondo, è proprio quando si smette di vedere troppo che si inizia a sentire davvero. L’osteria si apre su una stradina stretta da cui si percepisce il mare senza più vederlo. Due gradini per entrare, due vasi di piante verdi ai lati della porta di legno e vetro e una saletta casalinga decorata di storia. È qui che entrano con sommessa famigliarità i due uomini in jeans e camicia stropicciata, ed è qui che si siedono al tavolo a fianco. Barbe da fare ma non sfatte, bassi di statura e dimessi nello stile, simili senza assomigliarsi, saranno due amici che si ritrovano a pranzo per una chiacchierata. Pensionati forse, senza fretta comunque. La cameriera chiede se serve raccontare il menu (sì, raccontare dice). “Lo scoglio ce l’avete?” “Certo!” “Due scogli allora.” “Da bere?” “Acqua frizzante, due.” “Altro?” “I bavaglini.” La cameriera sorride piano mentre se ne va. Discorrono di fatti e persone, quello che dà le spalle alla saletta è più loquace, l’altro con le spalle al muro va a ruota. Discorrono di un certo “testa di c****” e della volta che il tale “voleva mettermelo in c***” e di come sia dura sopportare i condizionamenti di “quel mondo di m****”. Gradualmente cominciano a sembrare meno compagni di merende e più colleghi di lavoro, informali nel lessico certo ma professionali nei contenuti. Arrivano cenni a conferenze, pubblicazioni e finanziamenti e il lavoro generico si inoltra nei meandri dell’università e della ricerca. Arriva il pane su una ciotola di legno a forma di sessola e arriva l’acqua in bottiglie di vetro. “Mica motivazioni scientifiche, ovvio, tutta questione di interessi politici e industriali.” Poi d’un tratto spunta l’ESA, una sigla perentoria che colta al volo potrebbe essere un ente di servizi ambientali o una ditta di escavazioni stradali adriatiche, non fosse che presto l’ESA si ritrova associata alla NASA e ad un progetto di sperimentazione spaziale, finalizzato specificamente alla misura della banda di frequenze di 100 MeV. Forse no, forse si parla di hertz, mega o milli che siano… eppure quanto lo ripetono, due o tre volte, suona proprio MeV. “Perché è proprio su quella banda lì che c’è ancora un buco nel campo di misura della strumentazione usate per le missioni orbitali”. Arrivano i bavaglini da spiegare e da allacciare per bene al collo e arrivano gli scogli impiattati con il cestello metallico a parte, per gli scarti. “Alla fine i fondi comunque li abbiamo, americani ed europei insieme, due missioni coordinate, entrambe su Venere.” Poi la fisica dei gusci di cozze e vongole che cadono nel cestello, combinazione di gravità e onde di pressione, prende il sopravvento, e le frequenze di Venere si dileguano fuori dall’osteria e fuori dalla stradina stretta che percepisce il mare senza vederlo, si rintanano da qualche parte all’ombra degli scogli triestini in attesa, paziente, pigra, del loro posto luccicante in facciata da cui guardare il largo.
Questo è Max, anche se fino a pochi mesi fa aveva un altro nome e si trovava in un canile. L’altro nome gliel’avevano dato gli operatori del canile, pescando tra i personaggi di un telefilm, e lui era lì da un po’ perché, a quanto pare, dov’era prima non riuscivano a gestirlo e non lo trattavano bene.
Un sabato di marzo siamo entrati e li abbiamo guardati ad uno ad uno, nelle loro gabbie, gli ospiti pelosi, chi esuberante e chi schivo, chi affettuoso e chi diffidente, chi intraprendente e chi invisibile, e ad uno ad uno sembravano tutti quello giusto. Ma la nostra accompagnatrice, con quel misto di amore e rigore tipico di chi ama davvero, ci presentò lui per primo, dicendo che era lui quello giusto. Fatto sta che Enrico non ha avuto dubbi, e siccome eravamo lì proprio per Enrico, che da tempo insisteva per prendere un altro cane da affiancare a Luna, la decisione è stata sua.
Così quello giusto è arrivato a casa nostra ed è diventato Max.
Poi una mattina di giugno su facebook si anima una vivace discussione riguardo un cane che abbaia di notte nella nostra zona e che probabilmente soffre. Siamo in piena campagna, tra cani che si chiamano, mucche che partoriscono, uccelli che cinguettano, rospi che gracchiano, grilli che grillano, trattori che pompano e fucili che sparano: di notte ce ne sono di rumori da questa parti, e di notte ogni rumore stride. Quindi… che sarà mai un cane in più? E poi… chi sarà mai questo cane anonimo?
Penso: Max è qui da poco e di notte sta per lo più in casa, ma non sempre, e quando è fuori capita che si metta ad abbaiare. Gli esperti dicono che è normale, che è l’istinto della guardia e che nel buio finto-silenzioso l’istinto si acuisce. Chissà se l’attivista social che ha segnalato il caso del cane che abbaia troppo e che magari “potrebbe star male, potrebbe soffrire”, chissà se magari si riferiva a Max?
Penso però che in una contrada di campagna in cui abitano quattro gatti (più i cani) e tutti si conoscono, se proprio il caso sembrasse rilevante, uno prende e va direttamente alla fonte degli inquietanti latrati e lo dice agli interessati. Tanto più che le contrade di campagna pullulano di guardiani indigeni che sanno sempre tutto di tutti, almeno a chiacchiere e fantasie.
Max non sa della discussione in corso, penso gli basti essere uscito dal canile, aver trovato una nuova casa e un’amica Luna ed essersi lasciato un po’ di cose alle spalle. Max non lo sa, ma se è lui il protagonista, beh, ha scatenato un simposio di ampio respiro, animato dai contributi essenziali e perentori di chi ha già tutto subito chiaro: tocca scomodare Socrate, ma non sapere è il modo più comodo per avere certezze granitiche, e giudicare, pontificare, assicurare e, per i più virtuosi, giustiziare. Allora c’è chi ipotizza un caso di maltrattamento e abbandono di animali, c’è chi esorta a chiamare le forze dell’ordine e le guardie zoofile, c’è chi distilla perle di psicologia canina e chi illustra i motivi comportamentali che si annidano nel canide abbaiante.
Si formano presto due schieramenti: da una parte quelli che “il cane soffre e va salvato” e dall’altra quelli che “il cane è normale che abbai, sarebbe da preoccuparsi se miagolasse”; quelli che “in alcuni Comuni danno 500 euro di multa al padrone del cane che abbaia la notte” e quelli che “ma bravi! bell’atteggiamento verso gli animali, che se poi il cane abbaia ai ladri il padrone, oltre al furto, si becca pure la multa”.
Max non lo sa, ma probabilmente chi ha denunciato il caso non ha tutti i torti. A pensarci bene, è proprio così: quando qualcuno abbaia, soprattutto in modo insistente nella notte, vuol dire che ha qualcosa che non va, che magari sta male. Poi non è detto che questo valga anche per i cani.
“Uè” risponde al telefono la donna sulla soglia nella bottega. Altrove sarebbe “Pronto” oppure “Hello” o magari “Allô”. Qui, alla porta del negozio di profumi affacciato su Corso Garibaldi, basta “Uè”, asciutto e squillante, con una sola “e” accentata forte. Un suono che apre la conversazione come una parentesi, e il silenzio che segue è lo spazio a disposizione per chi sta dall’altra parte della linea. Per me che passo è solo silenzio e quando la donna dirà altro sarò già troppo lontano, oltre il palazzo del governo, verso la rocca longobarda. Lì traccheggia un gruppo di ragazzi, distratti e guardinghi, gesticolano parole veloci da cui d’un tratto esce un “Uèèèèèèè” lungo e modulato, sostenuto da almeno sette “e” scanzonate ad accento fluttuante, che fa il giro dalla piazza, danza intorno alle fanciulle di passaggio e ai lampioni ancora spenti e poi torna a cuccia da loro, come a segnare il territorio. È il capolinea del viale pedonale e si può tornare indietro, verso il teatro romano, oppure ci si inoltra nelle laterali della movida. All’angolo di un palazzo barocco c’è un crocchio di persone ben vestite, abiti da sera che si colorano nella luce morbida della sera in arrivo. Passa un vigile urbano e li saluta con un cenno della mano e con un “Uèèè” che parte alto e subito cala fino ad estinguersi, sapientemente calibrato sul confine tra confidenza e deferenza che da queste parti sono così bravi a presidiare. Mi chiedo quante variazioni di “Uè” esistano, giocate sul numero di “e”, sulle modulazioni di accenti e sulle infinite combinazioni di toni. Una parola che non è neanche una parola, raccolta lungo le strade tiepide di fine aprile, in tante diverse accezioni quanti sono i volti delle persone che oggi all’ora del tramonto muovono il centro di Benevento. Quando ci passo accanto l’Arco di Traiano sembra sussurrare circospetto “Uèè, senti a me, qui una volta si chiamava Maleventum”. E in effetti, in fatto di parole, stuzzica curiosità la faccenda del toponimo che ad un certo punto della storia vira in direzione opposta. Chiedo lumi al mio padrone di casa, un ospitale locandiere che di faccende storiche sembra saperne. Dell’antica Via Traiana che da Benevento tagliava l’Appennino per poi piegare verso la costa adriatica fino a Brindisi, il porto apulico dove attraccavano le spedizioni belliche di ritorno dalle scorribande oltre mare. Della via francigena che nel suo epico itinerario dall’Europa del nord fino alla Terra Santa inanella il centro beneventano e si smarrisce tra i suoi vicoli. Dei personaggi storici che l’immaginario collettivo indebitamente assegna ad altri luoghi ma che orgogliosamente qui ebbero i natali, come don Giuseppe Moscati, lo stesso San Gennaro e, fatalmente, Padre Pio di Pietrelcina. Gli chiedo allora del nome cittadino, della sua transizione dal male al bene. Lui sorride e divaga, accenna ai forti venti delle vallate sannitiche, riaccende cenni di mitologia greca e sguaina memorie di conquiste longobarde. Inopportunamente insisto e finiamo a cercare notizie in rete, ricavandone ipotesi di linguistica arcaica in cui la radice “mal” ricondurrebbe alla pietra, ma la faccenda rimane irrisolta, così che di fronte ai sussurri circospetti dell’Arco di Traiano non resta che l’immaginazione. Immagino l’imperatore in partenza alla volta della remota Dacia, all’orizzonte battaglie esotiche e lunghi giorni di terra, di mare e di terra ancora. Dalla capitale, seguendo la via Appia, Traiano ha appena raggiunto la cittadella alta, circondata dai due fiumi, e lì si ferma, gettando uno sguardo oltre, giù verso il lieve pendio e avanti ancora contro le montagne di levante, presagendo il tracciato di una nuova strada che reca il suo nome e che presto sarà percorsa per la prima volta. È un tardo pomeriggio di aprile ed è tempo di una sosta. Roma non è lontana ma i suoi frastuoni si smorzano nelle increspature delle verdi colline e qui non arrivano che tenui echi delle marce trionfali e degli intrighi forensi. È tempo di una sosta di riposo, preparazione e libagioni, di sacre invocazioni alla sorte e di profani svaghi di corte. L’imperatore scende da cavallo e si dirige a passi lenti verso il suo alloggio ma, prima di ritirarsi, si volta verso i luogotenenti e impartisce gli ultimi ordini di giornata. Comanda di preparare la partenza per domani, all’alba. Comanda di realizzare un arco in suo onore proprio lì, dove parte e arriva la sua via. E infine, scuotendo la testa, aggiunge: “Uèè, iuvenes. Huius civitatis nomen adversam fortunam fert. Nulla interposita mora mutanda est”. Più o meno: “Uèè, ragazzi. Il nome di questo posto porta jella. Va cambiato subito”.
“È questa la diga?” chiedo in parcheggio all’uomo che, bici e sporta alla mano, sta tornando dalla spiaggia. “Ciò, a xè questa a me diga” risponde lui, con l’orgoglio del padrone di casa e con la diffidenza di chi non si aspetta di incontrare forestieri. Ringrazio, saluto con sobria cortesia e mi incammino verso il faro, che sembra aspettare laggiù in fondo.
Mi hanno detto che si chiama diga anche se in realtà non sbarra del tutto la corrente. Si limita a deviarla, rallentarla, ammansirla. La corrente è quella del mare, che nell’alto adriatico, mi hanno detto, da sempre, da quando qualcuno la osserva, circola in senso antiorario: istria, trieste, grado e poi giù lungo il litorale fino a qui. L’acqua del mare circola, erode, trascina e deposita. La diga è qui per questo, perché se l’acqua potesse fare ciò che vuole tirerebbe dritto e pian piano porterebbe più avanti sabbie e sedimenti, ma più avanti c’è la bocca di porto della laguna e qualcuno, ad un certo punto della storia, deve aver deciso che quel varco era importante, non si poteva rischiare di ritrovarselo tappato e quindi andava protetto. Per questo è qui la diga, realizzata ai tempi dei dogi, mi hanno detto, e qui l’acqua sbatte, devia, si calma e lascia giù sabbia e sedimenti. E magari dà pure il nome a punta sabbioni.
Non capisco se sia un pescatore o un surfista il tipo che sta arrivando al parcheggio in tuta nera aderente, con la faccia dipinta di bianco, una tavola sottobraccio e una cassetta nera con le ruote che saltella sui ciottoli. Mi guarda, lo guardo, passiamo oltre. C’è pochissima gente, quindi per forza ci si nota e ci si guarda.
Proseguo lungo il viale lastricato che punta dritto verso il faro. A destra il cordolo di massi argina il mare e lo invita ad entrare ordinato e obbediente verso la bocca di porto. Anche se le scaglie gialle del mose, schierate laggiù di traverso in direzione della laguna, ricordano che il mare, se vuole, fa ciò che vuole.
Una donna con il foulard cammina verso di me parlando al telefono. Gonna lunga scura, cappotto marrone, mi raggiunge e prosegue lasciandomi solo qualche frase della sua conversazione: “Adesso vado a casa e sai cosa faccio? (pausa pensierosa) Mi faccio due uova con i carciofi, perché insomma… (pausa drammatica) insomma, i xè cussì boni!”
A sinistra del viale lastricato la sabbia si stende lunga a perdita d’occhio e in larghezza disegna con la riva una curva che diventa pian piano tangente alla diga. Lì sbatte l’acqua, devia, si calma e lascia giù i sedimenti, tracciando ogni giorno, ogni stagione una linea diversa. I dogi pensavano solo a salvare la bocca di porto e senza volerlo (forse) hanno salvato anche la spiaggia, che in certe epoche, mi hanno detto, cresceva verso il mare di dieci metri all’anno. Sempre più avanti, con la pineta che si allontanava dall’acqua e jesolo, più su, che invece all’acqua si avvicinava sempre di più.
Quasi al faro mi sorpassa una coppia di ciclisti, in alta uniforme. Si fermano al capolinea e si fanno qualche foto col telefono. Quando arrivo mi chiedono se posso farne una ad entrambi insieme. Io dico “Certo, poi però dovremo bruciare il telefono e le mani” Mi guardano strano. Spiego: “Per il contagio”. Ridono, si consultano, lui ammette “Xè vero, el ga ragiòn anca iù”, lei tira fuori le salviette disinfettanti, io li inquadro e li immortalo, igienizziamo mani e telefono e ci salutiamo.
Quando pedalando si allontanano resto solo e mi fermo a guardare la risacca di tetrapodi in cemento che si accalca attorno al faro. Il tempo di fissare il luogo, poi prendo la via del ritorno, verso il parcheggio. Lungo il viale lastricato arriva una signora col cane al guinzaglio. Mentre mi viene incontro mi punta gli occhi addosso, interrogativa, curiosa, insistente. A portata di voce le chiedo, cauto: “La me diga”. Risponde, decisa: “No a xè minga sua!”