Barba e Alvise sulla seconda onda(ta)

Novembre 2020, pomeriggio inoltrato, spiaggia del Lido di Venezia: viene intercettata una conversazione tra due gabbiani originari della vicina Pellestrina, da mesi osservati speciali dall’Intelligence internazionale (trascrizione in lingua originale; in coda sottotitoli in italiano**).

“Ocio, Alvise, ecola che la riva. Un, do, tre… eco l’onda”

“Ehhhh, ostrega, ti te meti a contar le onde deso, Barba?”

“E come no? Ocio ocio, eco che riva n’altra. Un, do, tre… eco l’onda”

“Scolta Barba, gò capio che de sti tempi no ghe xè un casso da fare, ma molaghe co ste onde”

“Molarghe coe onde? Sito fora? Alvise, i ultimi che ghe gà molà coe onde i xè tutti sarà su da novo!”

“Senti, lo sa anca le canocie che dopo un’onda ghe ne riva n’altra”.

“Alvise, le canocie xè pì sveje dei omini! I gera tuti olandi e i se gà ciapà giusto sul muso la seconda onda del bao!”

“Ah, xè vero, na bea ciavada i se gà ciapà… Quei no gà meze misure: o col spriss in man o intubà in ospedale.”

“Prima i gera sarà su e i parea mati, dopo i li gà molà in giro e i parea mati, deso i xè sarà su da novo e i pare mati. Che i sia mati e basta?”

“Gnente, non i xè boni de metarse dacordo. Uno dixe saremo tuto, l’altro vole verzare tuto, uno che va drio al vacìn, l’altro dixe che el bao no esiste”.

“Tasi va là, i no-xè-vero-gnente xè boni di stare in spiagia, girar el culo al mare e dir che l’acqua no esiste”.

“Craa, craaaa, Barba, el culo al mare!”

“E dopo, Alvise, se ghe riva l’acqua sui calcagni i dixe che se solo un imbrojo dele fabriche de sugamàn!”

“Craaa, craaaaa, a te me fè morir Barba”

“Almanco i se perde via col novo zugo dee regioni, là: strega-comanda-color… zalo, arancio, roso”

“Con quelo che i gà traficà par piturar de verde tute le venessie… desso i li gà fati zali”

“Pì che un risico mi me par che el sia un rosico… Però dai, stavolta con le scole i tien bota, le xè ancora verte”

“Sì va là, i sta lì a spostar banchi e tacar cartei, ma i se gà distemtegà che a scola prima bisogna rivarghe… tuti imucià in coriera e in vaporeto”

“Certo che un pocheto i me fa anca pecà. I pensa de saver tuto, ma no i capisse gnente de bai e gnanca de onde”

“Ognimodo na roba mi me par che i la gai capia. Finalmente i se rende conto de eser dei pori can, tanto che i voe farse curar dai veterinari”

“Mejo tardi che mai. Deso però speremo che no i resta tuti sechi, e che i torna fora, se no a chi ghe schitemo in testa noialtri?”

“Speremo dai… ma, Barba, ocio ocio, varda in aqua, che bel pesetto che spunta là drio la spuma. ‘Ndemo farse on cicheto che xè ora!”

“’Ndemo Alvise, ciapa ben la mira e ocio ae onde: un, do, tre…”

** Sottotitoli ufficiali, versione autorizzata dal tavolo permanente tra Ministero del Salto di Specie, parti sociali, Pulizia di Frontiera e Comitato Tecnico Ondivago:

“Fai attenzione, Alvise, ecco che arriva. Uno, due, tre… ecco l’onda”

“Ohibò, ora ti cimenti a contare le onde, Barba?”

“Certo! Attenzione che ne arriva un’altra. Uno, due, tre… ecco l’onda”

“Mio caro Barba, capisco che in questa fase ci si annoia, ma dimentica le onde”

“Dimenticare le onde? Sei incauto! Gli ultimi che hanno dimenticato le onde sono tutti di nuovo in lockdown”

“Ascolta, lo sanno tutti che dopo un’onda ne arriva un’altra”

“Alvise, evidentemente gli umani no! Erano tutti spensierati e sono stati travolti dalla seconda ondata della pandemia”

“Ah, è vero, un bel problema per loro… Non hanno mezze misure: o a divertirsi o in ospedale”

“Prima erano rinchiusi e sembravano irrequieti, poi erano liberi e sembravano irrequieti, adesso devono di nuovo rinchiudersi e sembrano irrequieti. Che siano irrequieti?”

“Eh, di sicuro non riescono a mettersi daccordo. Uno vuole restrizioni, l’altro vuole libertà, uno cerca il vaccino, l’altro nega l’esistenza del virus”.

“In effetti, i negazionisti sono capaci di mettersi in spiaggia dando le spalle al mare e dire che l’acqua non esiste”

“Mi fai ridere!”

“E dopo, Alvise, se arriva l’acqua e si bagnano dicono che è tutto un complotto dell’industria degli asciugamani!”

“Mi fai ridere assai, Barba”

“Almeno si impegnano nella classificazione cromatica dei rischi per regione: giallo, arancione, rosso”

“Per il momento il Veneto è giallo”

“È una classificazione complicata… Però bisogna ammettere che questa volta stanno riuscendo a tenere aperte le scuole, per ora”

“In realtà si sono dedicati a banchi e segnaletica in aula, ma si sono dimenticati che prima a scuola bisogna arrivarci, e così si assembrano nei mezzi di trasporto”.

“Però un po’ mi spiace per loro. Pensano di sapere tutto ma non capiscono alcunchè di virus e di ondate”

“Però una cosa l’hanno capita. Finalmente si sono resi conto di essere degli animali e vogliono affidarsi ai veterinari”

“Meglio tardi che mai. Adesso però speriamo che non si estinguano, e che prima o poi tornino fuori, altrimenti il nostro export andrà a picco”

“Speriamo, è vero… ma, guarda là in acqua, che bei pesciolini guizzano in mezzo alla schiuma. Andiamo a farci un’apericena, che è ora!”

Andiamo Alvise, prendi bene la mira e attento alle onde: uno, due, tre…”

Mercanti di tamponi

Proviamo a fare un esempio.

Hai bisogno di un’auto, hai un’idea di marca e modello ma soprattutto hai una certa fretta. Vai dal concessionario di fiducia, quello che da sempre segue te e la tua famiglia e che regolarmente ti fa tagliandi, riparazioni e manutenzioni. Ti dicono che va bene, ci si organizza, ma che in questo momento c’è molta richiesta e, per fare le cose per bene, serve qualche settimana. Il tempo di prendere accordi, preparare il veicolo, verificare le dotazioni, sistemare le carte e metterti al volante.

Tu però hai tanta fretta e ti guardi intorno. Attraversi la strada e vai dall’altro concessionario, quello di fronte, con l’insegna grande e luminosa, con le offerte speciali in vetrina e le caramelle sul bancone della reception.

Lì ti dicono che va bene, si può fare, magari costa un po’ di più ma domani sarai al volante. Ci pensi un attimo… ma sì, dai, questi sono veloci, paghi qualcosa in più magari ma capisci subito, dall’insegna scintillante e dai dolcetti di benvenuto, che ci sanno fare.

Così combini l’acquisto, firmi e il giorno dopo vai a prendere l’auto.

Eccola lì, pronta, lustra, profumata. Tutto a posto, un affarone.

A quel punto, quasi te n’eri dimenticato, si tratta di sistemare quei piccoli dettagli noiosi, ma che sarà mai?

Chiedi per la garanzia ed i tagliandi. Ti dicono che sì, sono 2 anni di copertura ma loro non possono firmartela, che i tagliandi a pagamento devi sempre farli da loro, però se ci sono interventi in garanzia non li fanno loro, devi andare dall’altro concessionario, quello là di fronte, e se ne occupa lui.

Chiedi il libretto ed i documenti di immatricolazione. Ti dicono che sì, sono solo carte e firme, non ci sono problemi, però loro non le fanno, bisogna avere un rapporto fiduciario consolidato per queste formalità, quindi devi rivolgerti all’altro concessionario, quello là di fronte, e se ne occupa lui.

Cominci a preoccuparti, e allora aguzzi gli occhi. Controlli pneumatici, volante, fanali e vai sul retro a vedere se c’è la ruota di scorta, ma prima di aprire il portellone ti accorgi che manca la targa. Ti dicono che sì, è solo un rettangolo di plastica con dei segni sopra, la macchina funziona anche senza ma se proprio la vuoi devi attraversare la strada e chiedere all’altro concessionario, quello là di fronte, e se ne occupa lui.

Tu allora attraversi la strada, pensando che siano già d’accordo, spieghi la situazione a quelli del tuo vecchio concessionario di fiducia e loro ti sgranano gli occhi, ti dicono che non funziona così, che se uno ti vende l’auto deve occuparsi di tutto, anche delle pratiche, della targa, delle firme e degli interventi in garanzia.

Tu cominci a vacillare, e anche un po’ a incazzarti. Riattraversi la strada, torni dal concessionario scaltro, con l’insegna psichedelica e le pasticche all’ingresso, e riferisci le obiezioni del concorrente. Ti dicono che è una vergogna, che quello di là della strada è un incapace, che inventa problemi inesistenti per ostacolare i loro affari.

Ecco, immaginiamo di trasferire questo esempio al fiorente mercato dei test antigenici covid-19, meglio noti come tamponi rapidi. Immaginiamo che un nostro cliente storico abbia fretta di fare uno screening per i propri dipendenti, ci chieda i tempi del servizio e poi, guardandosi legittimamente intorno, trovi un’altra struttura che, oltre all’insegna policroma e ai dolciumi di cortesia, offra tutto subito. Il cliente ci prende dentro, siamo pur in pandemia e… la salute prima di tutto. Avanti quindi con i tamponi rapidi, solo che, al momento di ricevere gli esiti, la struttura celere dice al cliente che loro non possono dare i referti ai dipendenti, che i referti devono essere validati e firmati dagli altri, quelli storici, che tocca agli altri prendersene la responsabilità e consegnarli ai pazienti, e che se gli altri fanno obiezioni è solo perché sono incapaci e fanno ostruzionismo.

Ma torniamo un attimo in concessionario, quello con l’insegna irresistibile e gli stuzzichini zuccherati, perché ti resta un’ultima domanda da fare al venditore scaltro. Gli chiedi se anche per il pagamento devi attraversare la strada e rivolgerti all’altro concessionario, quello là di fronte. Lui apre un sorriso smagliante e ti rassicura subito: “Ma si figuri, i pagamenti può farli tutti comodamente qui da noi. Al vostro servizio, per qualsiasi cosa, brillanti come l’insegna, dolci come i bonbon e rapidi come i tamponi.”

Riunione periodica “en plein air”

La differenza tra un pic-nic e una riunione di lavoro può essere minima, giusto un pc portatile al posto dei panini, e qualche metro di distanza dal prato.

Forse per questo, malgrado il contesto generale tutt’altro che rassicurante, c’era un che di spensierato e suggestivo oggi durante la riunione periodica del servizio di prevenzione e protezione, cui il decreto legislativo 81 del 2008 dedica l’intero articolo 35. Nelle aziende grandicelle, quelle oltre i 15 addetti, si deve fare almeno una volta all’anno, mentre nelle altre è facoltativa. Perché sia valida devono partecipare il datore di lavoro (che se proprio proprio non riesce può delegare qualcuno), il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, il medico competente e il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (che in questo caso sono io). Possono poi partecipare anche altri, basta invitarli, e per legge è fissato addirittura l’ordine del giorno.

Fin qui tutto normale, un rituale aziendale che da oltre 20 anni si ripete puntuale e metodico, a tratti pure noioso nella sua litania di riferimenti normativi, resoconti di atti compiuti e programmi di buone intenzioni. La differenza, come sempre, la fanno le persone, che con la loro partecipazione, non solo fisica, e con il loro estro professionale e relazionale possono animare l’evento, dargli colore.

Oggi la questione è partita come uno dei tanti problemi COVID-correlati: non abbiamo a disposizione una sala abbastanza grande per la riunione. Mumble mumble… Qualcuno deve aver guardato fuori dalla finestra e, adocchiato l’ampio spazio all’aperto sormontato da un cielo clemente, deve aver azzardato: potremmo farla all’aperto.

Fa strano, sarebbe la prima volta, ma… perché no?

A quel punto, infranto lo schema logistico, il prato verde giusto davanti allo stabilimento, col suo letto di foglie variegate nelle 50 sfumature di giallo, chiamava a gran voce. Tuttavia, un po’ per ragioni pratiche, ad esempio l’orizzontalità di sedie e banchetto, e un po’ per uno scrupolo residuo di decoro, si è optato per il vicino piazzale pavimentato.

Ed è così che ci ritroviamo nella riunione periodica “en plein air”, nel mezzo della pandemia, nell’ennesima giornata di trepidante attesa per un nuovo dipiciemme e le relative restrizioni, strattonati da casistiche sempre uguali e sempre diverse di positività, tamponi, contatti più o meno stretti e procedure sanitarie, in piena zona industriale, in una delle tante aziende che cerca giorno per giorno, ora per ora un delicato, vitale equilibrio tra continuità del lavoro ed emergenza sanitaria.

Sono poi andato a cercare “en plein air” nel vocabolario (www.treccani.it):  “Espressione con cui è stato indicato il modo di dipingere proprio soprattutto degli impressionisti, non in studio, bensì all’aria aperta, allo scopo di rendere la particolare vibrazione della luce naturale e dell’atmosfera, scoprendo nuove gamme cromatiche

Una riunione periodica impressionista quindi. Suona bene.

Infortuni COVID: Sommarie Informazioni Testimoniali

“Insomma com’è successo?” “Mah, eravamo lì come sempre, sembrava tutto normale. Poi ad un certo punto è arrivata sta botta. Ci ha preso proprio alla sprovvista. Chi si l’aspettava?”

“E avete analizzato le cause?” “Guardi, c’è poco da fare. Una fatalità, una disgrazia mai vista prima. Potevamo mica farci niente… cosa fai se ti casca in testa un meteorite?”

“Avevate valutato il rischio?” “Certo, come no? Noi valutiamo tutti i rischi. Guardi qua, tutto scritto. L’avevamo anche messo a verbale, in maiuscolo: STATO DI EMERGENZA. Ci eravamo presi avanti.”

“Ma allora cos’è che è andato storto?” “Sa, eravamo presi dalle nostre faccende, come tutti. Una roba simile non si era mai vista. Speri sempre che non tocchi a te, e intanto tiri avanti. Quella cosa dello stato di emergenza l’avevamo scritta così, per scrupolo, in caso di un’ispezione.”

“E poi cosa avete fatto per evitare che si ripeta? “Ah, guardi, ci siamo dati da fare un sacco. Regole, protocolli, dispositivi di protezione, sistemi di allarme e di soccorso. E tanti incontri e tante conferenze. Abbiamo chiuso tutto per sistemare le cose e per mettere in sicurezza. Abbiamo investito un sacco di soldi, abbiamo fatto mutui e abbiamo chiamato i consulenti più bravi, ma non importa perché per noi la salute viene prima di tutto. Adesso comunque stiamo attenti, non ci frega più. Adesso siamo pronti, abbiamo imparato la lezione. Ne siamo usciti migliori, va tutto bene!”

L’estate scorsa mi ero immaginato un’indagine SPISAL sul grande infortunio nazionale COVID-19. Che poi, caspita, c’erano tutte le condizioni: infortunio plurimo con esiti sia mortali sia di inabilità permanente sia di prognosi oltre i 40 giorni, senza contare i risvolti civilistici per danni morali e materiali. Mi sono immaginato un accesso degli ispettori, come ufficiali di polizia giudiziaria, nelle sedi dell’Azienda Italia per visionare i luoghi, acquisire la documentazione, raccogliere sommarie informazioni testimoniali. Mi ero immaginato le solite domande, quelle basilari nelle indagini sugli infortuni, rivolte alla direzione (là nel quartier generale della capitale), ai dirigenti di filiale (lì nelle palazzine regionali), ai preposti d’area (qui negli uffici di produzione sparsi nel territorio) e a ciascuna persona informata sui fatti, come vittima o almeno come testimone. E mi ero chiesto se alla fine, ponderati gli effetti, ricostruite le dinamiche e raccolte le deposizioni, sarebbe emersa qualche ipotesi di reato, oppure se l’indagine si sarebbe conclusa con una proposta di archiviazione per circostanze abnormi, esorbitanti e imprevedibili.

Questo me l’ero immaginato l’estate scorsa.

Ora però mi immagino una seconda indagine SPISAL sul secondo grande infortunio nazionale COVID-19, quello in corso. Mi immagino un altro accesso degli ispettori nelle sedi aziendali, con le stesse domande e con le nuove risposte. E mi chiedo se sia ancora sostenibile la tesi delle circostanze abnormi, esorbitanti e imprevedibili o se ora diventi più probabile l’ipotesi di reato, o magari molte ipotesi di reato, un po’ a tutti i livelli, con l’aggravante della recidiva.

“Insomma com’è successo di nuovo?” “Mah, avevamo organizzato tutto, avevamo preso tutte le precauzioni ed eravamo lì come sempre, sembrava tornato tutto normale. Poi ad un certo punto è arrivata quest’altra botta. Ci ha proprio preso alla sprovvista. Chi si l’aspettava?”

“E avete analizzato le cause?” “Guardi, c’è poco da fare. Una fatalità, un’altra disgrazia mai vista prima. Tutto quel che potevamo fare l’avevamo fatto. Guardi qui le spese, gli investimenti, le risorse. Potevamo mica far di più… cosa fai se ti arriva in testa un secondo meteorite?”

“Avevate valutato il rischio?” “Certo, come no? Noi valutiamo e rivalutiamo tutti i rischi. Guardi qua, tutto scritto: in questi faldoni ci sono carte, regolamenti, protocolli, fatture, verbali, informative, piani di emergenza con vari scenari. Avevamo anche messo a verbale, in maiuscolo, la proroga dello STATO DI EMERGENZA. Ci eravamo presi avanti.”

“Ma allora cos’è che è andato storto?” “Sa, eravamo presi dalle nostre faccende, come tutti. Avevamo anche molto arretrato da recuperare. Un’altra roba simile non si era mai vista. Speri sempre che non ti ricapiti, e intanto tiri avanti. Avevamo comunque scritto tutto, per scrupolo, in caso di un’ispezione.”

“E poi cosa avete fatto per evitare che si ripeta? “Ah, guardi, ci stiamo dando da fare un sacco, ma intanto vediamo come va, giorno per giorno, ora per ora. Siamo sempre all’erta, stiamo adattando in tempo reale regole, protocolli, dispositivi di protezione, sistemi di allarme e di soccorso. E incontri, e conferenze… un lavoraccio, sa, le proviamo e riproviamo tutte. Forse richiudiamo tutto, per risistemare le cose e per rimettere in sicurezza. Stiamo investendo un sacco di soldi, ancora più della prima volta. Facciamo debiti e mutui e abbiamo chiamato consulenti ancora più bravi perché è venuto che fuori quelli di prima non erano poi tanto bravi, e si mettevano pure a litigare tra loro. Ma non importa perché per noi la salute viene prima di tutto. Adesso comunque stiamo ancora più attenti, vediamo di uscirne in qualche modo e dopo non ci fregherà più. In futuro saremo più prudenti e questa volta sì che impareremo la lezione. Vedrà che ne usciremo migliori, e che andrà tutto bene.”

Pioggia e arcobaleno

È difficile dire se sia più bella la pioggia o se sia più bello l’arcobaleno.

Qualche giorno fa, di prima mattina, sono passati entrambi, prima una e dopo l’altro. Sono passati sui campi e sui colli, tra le case, sopra le fabbriche e le strade. E sono passati intorno alle scuole.

La pioggia battente, forte e distratta, triste e allegra insieme, la pioggia che nasconde le cose senza nasconderle, che fa rumore senza disturbare, che bagna e lava. La pioggia ti ricorda che là fuori, qualunque pensiero, problema o emozione tu abbia dentro, là fuori le cose continuano ad accadere, con disarmante e rassicurante serenità.

L’arcobaleno vicino e inarrivabile, trasparente e colorato, che si lancia verso il cielo e rimane con i piedi per terra, che chiama il sole e saluta la pioggia, che sembra il portale della felicità, proprio lì a due passi ma quei due passi non finiscono mai, come una promessa, una speranza, un desiderio. L’arcobaleno ti ricorda che là fuori, qualunque pensiero, problema o emozione tu abbia dentro, là fuori le cose continuano ad accadere, con disarmante e rassicurante serenità.

Soprattutto guardando, da dietro le finestre della scuola, con gli occhi dei bambini.

Solo una barca in riva al Ticino

Appena l’ho vista mi è venuto in mente Renzo. Tramaglino intendo. Poco importa se questo è il Ticino e non l’Adda.

Guardo la piccola barca pastello ormeggiata a pochi metri dalla riva, che neanche sembra una riva quanto piuttosto un prato scivolato accidentalmente verso il fiume. Sotto il pelo dell’acqua i fili d’erba fluttuano nella corrente con gli stessi movimenti che avrebbero al vento, indifferenti al cambio di fase.

A dire il vero neanche la piccola barca sembra una vera barca, viene il dubbio che sia lì apposta per essere guardata, una mera composizione estetica. Oppure un ricordo dimenticato di tempi lontani, quando proprio su quella riva, appena a monte dello sperone di terra da cui si stacca il Naviglio Grande, sostavano le chiatte cariche di marmi, in viaggio dalle cave di montagna verso i cantieri di Milano: una pausa veloce nel prato chinato verso l’alveo oppure un riposo in osteria, per rifocillarsi, dormire e discorrere, mettendo in rete le grandi vicende della storia e le piccole storie degli uomini.

Allora quella barca esile e leggera, legata ad un passo dalla riva, era pronta per abbordare una chiatta in arrivo oppure stava in attesa di un pescatore e delle sue lunghe ore solitarie tra le anse. E per un viandante, stanco e spaesato, bisognoso di attraversare il fiume, magari di fretta e col favore della notte per qualche malaugurata vicissitudine, la barca poteva rappresentare l’insperata salvezza oppure un miraggio irraggiungibile, a seconda di quale sponda avesse appena raggiunto a piedi e di quale fosse la sua destinazione.

Probabilmente è per questo che, vedendola, mi è venuto in mente Renzo.

Probabilmente per questo la piccola barca, che galleggia indolente ad una distanza irrisoria ed incolmabile, sopra l’erba mossa sott’acqua dal vento, sullo sfondo impetuoso del fiume in piena, bello e spaventoso da tenere in apnea, non è più una vera barca ma diventa un monito, nitido e severo come solo la natura sa essere: non fermarsi alla prima  vista, non piantarsi su una riva, immaginarsi sull’altra e più a monte e più a valle, spostarsi nel tempo e nello spazio, alzare lo sguardo e gettarlo in tutte le direzioni, anche quelle invisibili, poi richiamarlo indietro e mentre torna osservarsi da fuori, e solo dopo, una volta raccolto tutto, decidere cosa c’è davvero lì davanti.

Fosse anche solo una piccola barca pastello in riva al Ticino una sera d’autunno.

L’idea di Aldo Moro, e Argentina ‘78

Sarà che nei mesi scorsi la sospensione dell’ordinario e lo sbando dello straordinario hanno reso più visibili, quasi salvifici gli eventi del passato, specie gli anniversari e le commemorazioni, fatto sta che tra marzo e maggio mi è capitato di incrociare spesso, e con impatto insolito, rievocazioni su Aldo Moro, rapito e ucciso 42 anni fa.
Un pezzo di storia, quasi sconosciuta ai libri di scuola, così recente da renderne oggi tanto difficile il racconto quanto determinante l’effetto.
Mi sono ritrovato a cercare una versione originale, priva di intermediazioni: il mio ricordo di Aldo Moro, l’unico (per così dire) in diretta, risale proprio al 1978 e si colloca nel tinello dei nonni, dietro la guardiola di via Firenze. Avevo quasi 6 anni e nel ricordo è tutto in bianco e nero, non solo l’edizione straordinaria del telegiornale ma anche la credenza alta che incorporava la TV grigia, in una nicchia a misura, e poi la tavola apparecchiata, i commensali con gli occhi al tubo catodico, e fuori dalla finestra i palazzoni di viale Milano e il cielo sopra Vicenza. Poteva essere il 16 marzo, il giorno della strage di via Fani, oppure il 9 maggio, il giorno del ritrovamento del cadavere: il ricordo appartiene per certo ad uno di quei due eventi, ma non ricorda quale, anzi li confonde quasi fossero un evento solo. E forse lo furono.
C’è un clima teso, un’immobilità irrequieta, il fiato sospeso come sull’orlo di un baratro ad occhi bendati, una paura disorientata e solida come un muro contro il quale la Storia si è appena infranta e dietro il quale il futuro è invisibile, irraggiungibile.
Intorno a questo ricordo in bianco e nero, drammatico, crudo e insieme spettacolare, suggestivo, il tempo mi ha formato un’idea nitida, in un certo senso epica, di Aldo Moro, uomo e politico.
Un’idea alimentata da tasselli di informazioni e dalle contorsioni delle attualità successive. Un’idea basata su un certo modo di pensare la politica, stimolata dall’esempio di un padre segretario locale di partito, proprio in quel tempo, e poggiata su una trama di principi e valori tessuta in famiglia, intorno al tavolo della cucina, dove le scelte di paese e i destini della nazione si possono misurare con lo stesso metro.
Ma non ero sicuro che quell’idea fosse corretta, e allora non ho trovato di meglio che prendere in mano un libro su Moro. Il primo che ho incrociato, non importa quale: non cercavo il libro giusto, ma tracce giuste per verificare la mia idea.
E se, come capita per qualsiasi figura e per qualsiasi vicenda della Storia, il merito si declina nella complessità del contesto e nella molteplicità dei livelli di lettura, posso dire che la parte nitida ed epica della mia idea di Aldo Moro ha trovato sostanziale conferma.
Posso condensarla in cinque parole, che riguardano requisiti personali prima ancora che posizioni ideologiche, stile prima ancora che iniziative, fondamenta prima ancora che costruzioni.
CULTURA, intesa come possesso di un sapere ampio e interconnesso, continuamente bisognoso di crescere.
INTELLIGENZA, intesa come capacità di cogliere ed elaborare, interpretare e capire, leggere dentro.
PONDERAZIONE, intesa come valutazione moderata e oggettiva che detta il passo e prevale sullo slancio emotivo.
VISIONE, intesa come proiezione larga e creativa della realtà verso una dimensione potenziale, con onesta ambizione e con coscienza dei nessi causali e dei nodi discriminanti.
STATURA, intesa come spessore morale ed intellettuale che definiscono la qualità dell’individuo e delle sue azioni.
Requisiti essenziali e propedeutici per svolgere l’attività sociale più importante di tutte, la Politica. Requisiti che, fin dal ricordo del 1978, segnano la mia idea di Aldo Moro e che, a cercarli oggi, uno a uno per non dire tutti insieme, restituiscono un senso di nostalgica e malinconica lontananza.


P.S. Ho un altro ricordo del ’78, questa volta a colori, dal verde sgargiante dell’erba alle tinte vivaci delle maglie. Il ricordo a colori si colloca nel soggiorno di casa, divano, poltrone, tavolino e mobile basso con sopra la TV sintonizzata sul mondiale di calcio in Argentina. La magia del grande evento sportivo, l’epopea delle nazionali e dei fuoriclasse, l’Italia in festa per la vittoria sui padroni di casa nel girone iniziale. Non c’è traccia, nel ricordo a colori, della dittatura dei colonnelli che già da un paio d’anni devastava l’Argentina e le sue generazioni. E non c’è traccia, nel ricordo a colori, del cadavere di Aldo Moro, ritrovato appena 22 giorni prima nel bagaglio della Renault rossa.

La materia dell’anno

Vediamola così.

Quest’anno a scuola si farà una materia nuova. Anche se non prevista dal PTOF e non inserita formalmente nei percorsi curricolari approvati nei collegi docenti, inevitabilmente in aula si tratterà tutti i giorni un argomento che potremmo chiamare “SICUREZZA COVID-19”, ma che ognuno potrà ribattezzare a modo suo, a seconda della competenza e della fantasia: “MISURE DI CONTRASTO DELLA DIFFUSIONE DEL SAR-COV-19”, “PROTOCOLLI ANTICONTAGIO”, “PREVENZIONE SANITARIA” o più divulgativamente “OCCIO A VIRUS”.

Sarà una materia trasversale che si infilerà in tutte le lezioni, sarà sviluppata prevalentemente con didattica esperienziale e con continue esercitazioni laboratoriali, ma certamente avrà bisogno di qualche base teorica. Non avrà un suo libro di testo ma tanti documenti informativi, distribuiti o affissi, che verranno integrati, adeguati e calibrati nel corso del tempo. Ne abbiamo preparato uno, breve e qualitativo, giusto per (ri)partire, e l’abbiamo chiamato “RIENTRIAMO A SCUOLA IN 10 PASSI”. È pensato con l’ottica del RSPP che per una volta si rivolge direttamente a loro, ragazzi e ragazze, bambine e bambini che finalmente stanno per tornare in aula. E che, a scanso di equivoci, ci torneranno come sempre per imparare, crescere, maturare, anche e soprattutto per la particolarità di quest’anno.

“SICUREZZA COVID-19” sarà quindi una materia di notevole impatto e di immediata applicazione, coinvolgerà le famiglie come difficilmente riescono a fare le “materie normali” e aprirà un varco in un’area tematica più ampia, che potremmo chiamare “SALUTE PUBBLICA”, la quale a sua volta può essere ricondotta ad una delle discipline più strutturali, determinanti e sottovalutate del mondo scuola, l’”EDUCAZIONE CIVICA”.

Vediamola così: il problema sanitario esiste, l’opportunità educativa và colta e coltivata.

Non serve scomodare Albert Einstein per osservare che le crisi sono (anche) delle benedizioni, che portano progressi, creatività e scoperte, che fanno emergere il peggio e il meglio di ognuno.

Non serve Einstein, è sufficiente una scuola.

“Mascherine baciate”

Avranno 12 anni, 13 al massimo. Stanno seduti fianco a fianco in vaporetto, sui sedili schierati a coppie sotto coperta.
Lei è più alta, più intraprendente, più autorevole, conduce la danza fingendo di non condurla.
Lui è più minuto, più composto, più attendista, si fa condurre fingendo di condurre.
Fianco a fianco non è una descrizione precisa: sono piuttosto fianco a faccia. Lei per lo più rivolta verso di lui, non solo gli occhi e il viso ma tutta la sua vivace figura ruotata sul sedile nella direzione che le interessa, e che vuole interessare. Lui per lo più rivolto in avanti e continuamente richiamato verso di lei, un’intermittenza di occhiate vispe e bisbigli veloci e gesti incrociati per poi tornare in ordine, fino all’intermittenza successiva, o fino a quando lei giocando a far l’indifferente si ricompone indolente sul sedile e allora è lui a voltarsi per richiamarla.
Lei più alta, ma spesso si inclina a sinistra e si abbassa per posare la testa sulla spalla di lui, che allora diventa il più grande dei due. Lui più minuto, ma spesso si arrampica verso destra e con la mano circonda le spalle di lei per trarla a se.
Entrambi indossano la mascherina, per tutto il tempo, o quasi. Talvolta l’abbassano o la sollevano di pochi centimetri e per pochi istanti, ognuno la propria oppure l’una quella dell’altro, e viceversa. Giusto pochi istanti, fugaci e clandestini, per un tocco scherzoso, un moto di affetto, o per guardarsi di più, per riconoscersi dietro e dentro.
E ad un tratto si ritrovano faccia a faccia, i loro visi si avvicinano, distrattamente quasi, e con lentezza, come se in qualsiasi punto si possa recedere, far marcia indietro, ma non si fermano, si avvicinano ancora fino a quando le due mascherine vengono a contatto, aderiscono l’una all’altra e nella pressione cercano di oltrapassarsi, di indovinarsi, per pochissimi e incalcolabili secondi in cui il vaporetto si svuota e le increspature della laguna rallentano.
Poi le mascherine si staccano, e la danza riprende.

È un rituale antico, un quarto di secolo per quanto mi riguarda, quello di chiedere, al rientro dalla mostra del cinema, quale film sia piaciuto di più.
Ecco, quest’anno, anche se non era sugli schermi e non passerà nelle sale, benché senza regista né dialoghi e con sottotitoli immaginari, potrebbe scapparmi di rispondere: un corto fuori concorso, ambientato a Venezia, dal titolo “Mascherine baciate”.

C’è il tempo della scuola

C’è stato il tempo delle chiusure, dei primi protocolli anticontagio e delle serate ad aspettare l’estrazione degli ATECO: chi vince al lavoro e chi perde a casa, o viceversa. Tutti sapevano tutto e nessuno sapeva davvero. Tempo di conferenze in diretta, attese come le partite dei mondiali, e di autodichiarazioni pronte, “patente e libretto”, per legittimare l’uscita da casa.
C’è stato il tempo delle riaperture, delle alchimie sanificanti e delle mascherine mascherate, delle regole impossibili e poi difficili e poi normali, delle soluzioni impraticabili ma solo prima di metterle in pratica. Tutti sapevano tutto e nessuno sapeva davvero. Tempo di mani pulite e di termometri che davano i numeri: 36,4 “ok”; 37,8 “aspetta che vieni da fuori, sei stato al sole e magari è per quello”; 31,3 “ok vai pure” “ma con 31 sono morto!” “non importa, basta che non hai la febbre”.
C’è stato il tempo dei rientri dall’estero, dei ripassi di geopolitica e degli incroci di decreti che ogni giorno sfornavano nuovi, inebrianti cocktail estivi di viaggi, quarantene e tamponi, da far invidia ai bar della riviera al tramonto. Tutti sapevano tutto e nessuno sapeva davvero. Stati vietati, semivietati e ammessi ma forse, e se il volo da Kiev delle 23.55 fosse tardato di 10 minuti sarebbe atterrato in una dimensione parallela, chissà se qualcuno al terminal sarebbe stato un grado di venirne a capo.
C’è ora il tempo della scuola, delle speranze e delle paure, dell’impegno e dell’incertezza, dei misteriosi banchi a rotelle e della rivincita dei righelli, che per 3 centimetri sentenziano il destino di una classe. Tempo di sintomi mai sentiti nominare che si manifesteranno di sicuro almeno a mattine alterne, di stanze covid “e chi ci va dentro con l’alunno untore?” e delle scommesse “se capita il positivo fermano solo la sezione, tutta la scuola o l’intera galassia centrale”?
C’è ora il tempo della scuola, dopo più di 200 giorni.
La scuola.
Quella cosa che prende il nome da una parola greca antica che significa “ozio”, “tempo libero”, perché allora il lavoro vero era solo manuale, fare di mano e faticare di membra, mentre lo studio, la lettura e le attività intellettuali erano altro, ai margini.
La scuola, nata come un lusso, ci ha impiegato millenni per trasformarsi in un diritto e oggi sembra tornata un lusso.
E allora via di dissertazioni e chiacchiericci, luminari e opinionisti, inquietudini apocalittiche e squilibri negazionisti, tutti sanno tutto e nessuno sa davvero.
Ma non importa: a sapere davvero saranno loro, bambine e bambini, ragazze e ragazzi, alunni e studenti.
C’è ora il tempo della scuola, c’è ora il loro tempo.
Servirebbe un po’ di silenzio.
Per sentire la prima campanella.
E lo scalpiccìo dei passi che, finalmente, ritornano nei corridoi e nelle aule.