Barba e Alvise di ritorno dalla Croazia

Agosto 2020, tarda mattinata, da qualche parte nel Terzo Bacino: in mezzo al canneto viene intercettata una chiacchierata tra gabbiani, in lingua originale (in coda sottotitoli in italiano**).
I gabbiani sono due, originari di Pellestrina e già noti alle autorità.
“Dal vero, Alvise, no go mia capio parchè i se imucia tuti su par la riva de là del mar… ghe piase proprio sbregarse i piè sui pieroti slavi pitosto de star de qua sul sabion nostran?”
“Barba, a parte che lori ghe piase imuciarse sempre e dapartuto, ma… dal bon no te ghè ancora capio? Te gò anca menà de là in Croassia a darghe un’ocio!”
“Ghesboro, Alvise, i xè sta in gabia par mesi, i ris-cia ancora la pele pal virus, i cria che no i gà petachini, ma a mi i me par solo rincojonii”.
“Scolta, lori no ghe piaxe mia pensar, lori ghe piase straviarse fora. E de là del mar i se sente pì fora, i và par sfogarse. Ti te ragioni da gabiàn, ma i omini i ga i so istinti, co i va in boreso no tei tien mia. Te i ghe visti i grandi che se brustolava al sole e i cei che girava da soli, a s-ciapi, e te ghe visti i cei pì grandeti sderenai de spris e spuaci!”
“Poareti, asemoli fare va’. Dopo i torna casa e i par mati par farse tamponare. Na volta se uno vegnea tamponà el tirava xò santi e madone.”
“Craaaaa, craa. A te me fe morir, Barba”
“Speta, mia finia: na volta i se perdea drio el balon e le sagre, desso i par mati par decreti, ordinanse e conferense stampa.”
“Tasi va là. La gheto vista l’ordinansa co l’elenco dei stati foresti da cui se pol entrar liberamente in Veneto? Oh, Barba, par cueo ghe xè anca l’Italia in elenco, smisià dentro tra Islanda e Liechtenstein!”
“Viva el leon! Poareto anca quelo…”
“Ciò Barba, ma parchè gheto vosuo tornar par teraferma daa Croassia? Podeimo mia traversar el mar come all’andata?”
“No caro, par mare i te vede da lontan e no te ghe scapi. Par teraferma invese te cati sempre dò canne o un’albera par scondarse.”
“Scondarse? E parchè dovarisimo scondarse, ciò?”
“Seto ti? Metti che de boto salta fora l’ultimo so-tuto-mi e dà colpa ai gabiani. O che i se incaponise de far el tampon a tuti quei che torna zolando. Seto ti cossa che i se inventa sti qua?”
“Ostregheta, beco serà e su coe rece. Però ndemo desso, che go pressa de tornar a Pelestrina. Vojo vedare se i me gà acetà la domanda.”
“Quala domanda, Alvise?”
” El bonus, no? Sta primavera ghemo o no ghemo perso gran parte del nostro lavoro? Ghe gera nessun in giro da schitarghe in testa, vuto che i me daga mia anca a mi sti marsi de siesento euro?”
Fruscio di canne e volano via, a craaaaa craa alterni, bassa quota, direzione laguna.

** Sottotitoli ufficiali, versione autorizzata dal tavolo permanente tra Ministero del Salto di Specie, parti sociali e Pulizia di Frontiera:
“Davvero, Alvise, non ho ancora capito perché si assembrino sull’altra sponda dell’Adriatico. Amano forse ferirsi sugli scogli croati piuttosto che godersi la sabbia veneta?”
“Barba, premesso che a loro piace assembrarsi sempre e ovunque, davvero non hai ancora capito? Ti ho anche portato in Croazia a controllare”.
“Accidenti, Alvise, sono stati in lockdown per mesi, rischiano ancora la salute, lamentano di essere senza soldi, ma a me sembrano solo spaesati.”
“Senti, a loro non piace ragionare, a loro piace svagarsi. Così vanno all’estero e si sfogano. Tu ragioni da gabbiano, ma gli uomini hanno i loro istinti, quando sale loro la smania non si contengono. Hai visto coi tuoi occhi gli adulti rilassarsi al sole e i bambini abbandonati a branchi, e i ragazzi spassarsela tra aperitivi e droplet!”
“Lasciamoli fare, poveretti. Poi vengono a casa e non vedono l’ora di farsi tamponare. Una volta se uno veniva tamponato non era per nulla contento”.
“Mi fai ridere assai, Barba.”
“E non è finita: una volta andavano matti per il calcio e per le feste paesane, adesso si dilettano con decreti, ordinanze e conferenze stampa.”
“È vero. Hai visto l’ordinanza con l’elenco degli Stati esteri da cui si può entrare liberamente in Veneto? Per fortuna c’è anche l’Italia nell’elenco, tra Islanda e Liechtenstein.”
“Bene.”
“Senti Barba, perché hai voluto fare il tragitto sopra la terra per tornare? Non potevamo rifare quello sopra il mare come all’andata?”
“Eh no! Per mare ti vedono da remoto e non puoi scappare. Per terra si trova sempre un canneto o una pianta per nascondersi.”
“Nascondersi? E perché mai?”
“Non si sa mai. Metti che arriva l’ultimo esperto e dice che il virus è trasmesso dai gabbiani. O metti che si fissano di applicare indiscriminatamente il tampone a qualsiasi rientro per via aerea.”
“Vero, becco chiuso e stiamo attenti. Però adesso andiamo, ho fretta di tornare a Pellestrina. Voglio vedere se mi hanno accettato la domanda.”
“Che domanda, Alvise?”
“La domanda del bonus. La scorsa primavera anche noi abbiamo avuto una rilevante contrazione del giro d’affari, vuoi che non spetti anche a me il sussidio di 600 euro?”

Migrazioni di categoria

È una giornata di inizio agosto, un’esemplare, inequivocabile giornata estiva, di quelle che si apprezzano molto o incombono molto a seconda di cosa c’è in agenda. Di quelle che spezzano l’umanità e le sue percezioni in due grandi categorie esistenziali: coloro che se la godono e coloro che se la soffrono.
Io in agenda ho un sopralluogo in cantiere, e mica un cantiere qualunque. Qui bisogna entrare in alta uniforme, mettendo insieme giubbino d’ordinanza ben riconoscibile (catarifrangente sì, traspirante così così), scarpe antinfortunistiche, mascherina boccanaso anticontagio, casco paracolpi e occhialoni paraschizzi. Questi ultimi, per noi ipovedenti non lentiacontatto-dotati, vanno sopra gli occhiali da vista: i due dispositivi bisticciano un po’, ma in qualche modo se ne fanno una ragione.
Un sole forte oggi, il cielo appena striato da vapori di nuvole, temperature alte anche più dell’uniforme.
Arrivo in cantiere, guardo, parlo, aspetto, controllo, faccio foto, scrivo, giro, guardo ancora. Gli operai che formicolano in tuta monouso e semimaschera con cartucce filtranti (di quelle serie). Il caposquadra che, sotto le protezioni e sopra il rumore, grida anche solo per salutare. La polvere che sbuffa controluce e brulica a terra. La scorta di bottiglie d’acqua tiepide, seminascoste all’ombra di un impalcato. La documentazione inzaccherata ma pronta, lì al suo posto, che non si sa mai. Spezzoni di conversazioni multilingue in cui, si capisce, la mimica fa più delle parole.
Poi ad un certo punto me ne vado.
E mentre me ne vado mi è chiaro che oggi tra tutti coloro che stavano in cantiere io, che me ne sto andando, ero quello con l’uniforme più leggera, con i compiti meno pesanti (tralasciando di pesare la responsabilità, che anche messa sulla bilancia ognuno ci legge il valore che vuole) e con più margine di pensare alle temperature, di sbirciare il cielo striato e di giudicare il sole.
Insomma adesso, mentre raggiungo l’auto accaldata in parcheggio, mi è evidente a quale delle due categorie esistenziali io appartenga oggi. E fa strano pensare a quel tipo che appena un’oretta fa entrava in cantiere: a prima vista mi assomigliava parecchio, ma apparteneva all’altra categoria.

From The Fat to ValleyHouse

A fermarmi è stato il cavallo nocciola, che beccheggiava lungo le stringhe del recinto. Aveva due complici, a dire il vero: la luce sbieca che lo avvolgeva e, sullo sfondo, la sottile fascia di trapasso tra il profilo scuro della campagna e la pennellata arancio del basso cielo.
Il cavallo con i suoi complici mi ha fermato all’improvviso, sul tappeto verde al centro della capezzagna, e senza scalciare né scartare mi ha disarcionato dalla pianura brendolana per proiettarmi, con subitaneo abbrivio, in un’altra pianura.
Una pianura altra.
Ci ho messo un po’ a riconoscerla per nome, giusto il tempo di ricongiungere sguardo fuori e sguardo dentro. Ci ho messo un po’ anche perché il suo nome era fatto di due nomi, che fino a lì non avevo ancora accostato.

Il primo nome era scritto nella linea di confine dell’orizzonte, sullo sfondo, appena sotto l’arancio del basso cielo e appena sopra il verde scuro della campagna. È lì che, a sorpresa, ho ritrovato la pianura sconfinata e indolente di Cormac McCarthy, gli spazi vertiginosi della “Trilogia di frontiera”. Un’alternanza di messa a fuoco che, nell’impossibilità di contenere l’infinito, ora ingigantisce un dettaglio a pochi passi, prossimo e sperduto, come un cavallo selvaggio o le tracce di un recente bivacco o un viandante senza parole, e ora insegue le nitide linee dell’orizzonte, segue le onde lontane degli altipiani e attraversa le foschie per intercettare un animale solitario, una promessa di pioggia o la polvere che sta per alzarsi col vento. Sembra che, per lo più, non succeda nulla nella pianura di McCarthy, pagine e pagine di spazi, colori, tempi e movimenti leggeri che scorrono lente, come il passo del cavallo sul sentiero che si spinge fino alla frontiera e poi la raggiunge e infine la oltrepassa senza che la frontiera si veda mai. Sembra che non ci sia una vera storia nella pianura di McCarthy perché in realtà la storia è la pianura stessa. E se ogni tanto il racconto accelera e spreme in poche righe scatti di vitalità ed eventi drammatici è solo un’increspatura futile e passeggera nella pianura, che senz’altro la pianura, tra poco, appianerà.

Il secondo nome era scritto nella luce sbieca che avvolgeva il cavallo nocciola, nell’erba strappata da terra a morsi e nelle stringhe del recinto. È lì che, a sorpresa, ho ritrovato Holt e la “Trilogia della pianura” di Kent Haruf, le sagome degli alberi a fine giornata, una finestra illuminata sulla prima casa del quartiere, il rumore di un autocarro in manovra dietro un garage, un cane rauco che abbaia ad un gatto senza coda ed il punto di Luna in un cielo ancora troppo luminoso per riceverne la luce. Tutto accade dove nulla accade, i guizzi dello straordinario scovati tra le coltri dell’ordinario, le profondità della vita tratteggiate su una tavola apparecchiata, per colazione, di fronte alla vetrata che dà sul cortile, sul retro della stalla e, oltre, su praterie indisturbate fino alla statale, che è un limite senza limiti. Haruf racconta una qualsiasi giornata normale vissuta senza i filtri né punti di vista, il bene e il male indistinti, il bello e il brutto fusi insieme, come afferrare il gambo di una rosa a mani nude o camminare in un campo di girasoli e ortiche a piedi scalzi.

Le pianure americane di Cormac McCarthy e di Kent Haruf sono dall’altra parte del mondo eppure, a sorpresa, erano comparse lì, all’improvviso, nella pianura brendolana al tramonto, grazie al cavallo nocciola e ai suoi due complici. Mi hanno fermato mentre percorrevo il sentiero dei campi, che unisce e separa due pezzi del mio piccolo paese, correndo lento lungo rogge e filari, dove indovini la presenza delle bestiole dai moti dell’erba alta e dagli schiocchi nell’acqua.

Che poi, pensavo, se quello stesso sentiero tra i campi, che passa di fianco al recinto del cavallo nocciola avvolto di luce sbieca e stagliato sulla fascia di trapasso tra cielo e campagna, se quel sentiero fosse tracciato in un racconto di McCarthy e di Haruf, cambierebbe nome, diventerebbe, che so?, “the ancient rural trail from The Fat to ValleyHouse”. Ma in fondo, a farselo a piedi in una sera di luglio, senza filtri né punti di vista, può diventare una storia anche nella sua versione originale di vecchia capezzagna dal Grasso a Casavalle.

Il cantiere della Madonna

È stato un cantiere difficile, di quelli in cui un coordinatore per la sicurezza fa fatica a mantenere alta e costante l’attenzione sul rispetto delle normative e sulla tutela delle persone. Ora che i lavori sono terminati posso dirlo: il cantiere della Chiesa di Madonna dei Prati mi ha messo a dura prova, c’era sempre la sensazione di sottovalutare un rischio, di perdere un dettaglio, di distrarsi.

No, no, mica per colpa delle imprese o dei lavoratori, anzi! Mica per i ponteggi creativi che si inerpicavano sulle pareti perimetrali e si attorcigliavano addosso al campanile, su fino alla croce. Mica per le consunte travi del tetto che, una volta svelate, sembravano sospese nel vuoto. Mica per il telo di protezione, teso tra i montanti e posato come un grande cappellino sulla sommità della chiesa, e acrobaticamente adattato all’avanzamento dei lavori.

Macchè! È stato un cantiere difficile per tutt’altri motivi, e i motivi sono due.

Il primo motivo è che quel luogo, Madonna dei Prati, è speciale. Di una bellezza popolare ed esclusiva, modesta e sofisticata insieme, che dirama suggestioni dai piccoli scorci nascosti dietro l’angolo fino alle viste ampie sul paesaggio. Stai guidando verso il cantiere, hai in mente le fasi di lavoro e l’idoneità delle imprese, e mentre ti avvicini senti che tutto intorno si sgretolano le muraglie dell’asfittica urbanistica provinciale, svaporano le calche edificate delle zone industriali e gli assembramenti residenziali. Il cambio di scena è repentino, gli spazi si aprono nella campagna e vi si distendono, si rilassano per convergere verso un baricentro visuale, segnato laggiù da un ciuffo di alberi alti, a cui sembrano tendere i filari di platani lungo la strada. Il piazzale, tra campo da calcio e chiesa, è fermo nel tempo, in attesa, e anche l’asfalto pare antico. Appena varchi la recinzione metallica ti accolgono crocchi di galline residenti, le quali, senza casco né tesserini di riconoscimento, zampettano disinvolte nell’erba e intanto ti osservano sospettose, e non hai dubbi che a vigilare sul cantiere ci pensino loro.

Poi sali, scalando il ponteggio, scaletta, impalcato, scaletta, impalcato, da un lato la parete ruvida del campanile e dall’altro il ciuffo di alberi alti, lo stesso baricentro visuale su cui convergevano gli spazi e le strade, solo che adesso ci sei dentro. Fingi di ispezionare parapetti e botole e ancoraggi ma la verità è che stai solo salendo, su fino al giro più alto, dove normalmente non si arriva, dove appoggi la mano sulle onde rosse di mattoncini della cuspide, dove misuri a spanne la croce apicale piantata sulla pietra, dove fai una pausa, più per rispetto che per stanchezza, e poi liberi lo sguardo tutto intorno, dalle linee del campo di gioco, appena lì sotto, alle scacchiere di terreni coltivati che incontrano i tentacoli dei quartieri e poi, oltre, fino  alle colline declinate di verdi e increspate da pezzi di paese. E dalla parte opposta, dietro le quinte di alberi alti, ancora campagna, ancora spazi aperti, placidi e immemori fino al loro brusco confine, segnato dal fronte dei capannoni industriali, i quali incombono, squadrati e arcigni ma inerti, come una mareggiata di calcestruzzo che si sia cristallizzata lì, improvvisamente, arrestando d’un tratto la sua avanzata, per sempre, o per ora.

Ecco, questo è il primo motivo per cui è stato difficile occuparsi di sicurezza nel cantiere della Madonna. Il secondo motivo erano le persone. Che ti spiegano cosa stanno facendo con il gusto e l’orgoglio di raccontarlo. Che ti forniscono dettagli in bilico tra la pratica edilizia e l’ispirazione artistica, o magari tra l’ispirazione edilizia e la pratica artistica, che poi, volendo, non c’è differenza. Che ti mostrano la testata logora, pericolante di una trave ricostruendone la storia prima ancora che il nuovo appoggio. Che ti parlano di soluzioni, esperimenti e artifizi di cui, oggettivamente, capisci poco, ma ascolti comunque per il semplice piacere di ascoltare, come capita con una canzone in una lingua sconosciuta o con i testi dell’opera a teatro.

Sarà per questi due motivi, sarà per i ricordi di passeggiate infantili, di tornei giovanili, di cerimonie, immagini e pensieri senza età, sarà perché è uno di quei luoghi che appartengono profondamente alla vita di paese ma altrettanto profondamente tengono le distanze, sarà perché ognuno può scegliere quando, dove e come lasciarsi suggestionare, fatto sta che quello di Madonna dei Prati è stato un cantiere difficile da coordinare, e chissà se qualche rischio è stato sottovalutato e qualche dettaglio perso. Bisognerebbe chiederlo alle galline residenti in crocchio, alle quali di certo nulla sfugge.

La Politica nel vuoto

Ebbene sì, mezzora strappata al flusso di una giornata di lavoro. Uno stacco, il salto di una battuta, un piccolo spazio di vuoto non previsto in agenda. E il vuoto, a lasciarlo fare, è bravissimo a riempire lo spazio.

Fatto sta che a metà pomeriggio finisco il sopralluogo, salgo in auto, esco dalla rotatoria e arrivo ad un bivio: a sinistra è indicata l’autostrada, a destra è indicato il lago. Le ruote, come sui binari, tirano di là. Le mani fremono, tamburellano e poi decidono che si va di qua. Ma sì, che sarà mai? giusto una sosta, due passi tra la riviera e i vicoli di Peschiera. Già che sono qui, mica ci vengo tutti i giorni…

Dal molo il lago si allarga fino alla foschia che vela le montagne. Il sole rimbalza a scaglie sulle piccole onde. Incrocio una di quelle gelaterie che ti chiamano dentro e poi, poco distante, una panchina affacciata su un canale, sulle barche ormeggiate e sulla ringhiera fiorita. Davanti, disteso sull’altra sponda, c’è un edificio di una bellezza discreta, che è difficile non guardare, ed è difficile non fotografare. La foto però non restituisce i rumori, e anche lo sguardo, di suo, li vorrebbe ignorare. C’è un quadro di silenzio e di quiete lì davanti, non fosse per quella gru là dietro, ferma e distratta. Eppure il rumore c’è, e viene proprio da quell’edificio, un rumore duro e battente, di martelli demolitori, di utensili che scavano e frantumano, di lavori in corso dietro la facciata impassibile. Da fuori non si vede, ma là dentro qualcosa sta profondamente cambiando, dentro qualcosa si sta rompendo e ricostruendo.

È difficile spiegare il collegamento, bisognerebbe chiederlo al vuoto che, appunto, è bravissimo a riempire lo spazio, basta lasciarlo fare, e lo fa a modo suo. Eppure un collegamento deve esserci se su quella panchina, guardando l’edificio immobile con i rumori dentro, mi vengono in mente questi giorni di Bruxelles ed i palazzi dove si parla di Europa. Ciò che si vede e ciò che si sente, ciò che appare e ciò che traspare, le cose come sono e come vorrebbero essere e, ancora, come potrebbero essere. E mi viene in mente che per un appassionato di Politica questi giorni di Bruxelles sono uno spettacolo straordinario, un esercizio ed una formidabile esperienza. Un surrogato degli Europei di calcio, perduti nella pandemia.

Per un appassionato vero di Politica, non di quelli che sanno tutte le risposte prima di fare le domande, non di quelli che sbandierano il tifo invece di osservare il gioco come gli ultras di spalle in curva, non di quelli che setacciano dune di informazioni per tenere solo i granelli del loro colore, non di quelli che hanno già deciso chi ha ragione e chi ha torto, chi elogiare e chi screditare, e non c’è verso di cambiare idea, perché cambiare idea mette fuori squadra, perché cambiare idea non conviene o, peggio, fa una paura tremenda, come uno spazio vuoto. Per un appassionato vero di Politica, di quelli che fanno domande per cercare risposte, di quelli che esaminano la struttura e ne interpretano i rumori, uno per uno, dagli scricchiolii alle demolizioni alle ricostruzioni, e provano ad immaginare in anticipo come sarà e come potrà essere meglio, di quelli per cui la ragione e il torto sono il risultato e non il presupposto, di quelli che mettono alla prova il proprio punto di vista prendendo a prestito quello degli altri, di quelli che non hanno paura di cambiare idea e di vuotare spazi e lasciare che si riempiano di nuovo.

Poi il gelato finisce, la panchina si allontana, il canale sfila di lato insieme all’edificio e ai suoi rumori.

L’auto riparte, le ruote tornano sui binari e infilano l’autostrada.

“Cavacamisa” e gli eroi del ciclismo

Nella foto è quello al centro e si chiamava Giordano, come suo padre, ma lo sapevano in pochi. Per tutti, e per me, era Piero, perché era nato il 29 giugno, giusto un secolo fa, nel 1920, e benché quella data nel calendario sia dedicata a due santi si sa che Paolo viene sempre per secondo. Compiva gli anni un giorno dopo di me e questo gli dava sempre l’occasione per dirmi che tra noi ero io il più vecchio.
Mi viene in mente che amava il ciclismo, quello delle montagne e degli eroi che faticano e tentano le imprese, uscendone a volte vincenti e a volte sconfitti, ma sempre eroi, perché l’impresa vera non è sotto lo striscione del traguardo ma sul ciglio dei tornanti. Il Giro d’Italia in tv nei pomeriggi di primavera era un rituale sobrio e solenne, celebrato tra la tappa in corso e la nostalgia dei grandi campioni, da Coppi a Merckx a Moser-Saronni. Una passione da spettatore, certo, ma poggiata su fondamenta più profonde, come un intreccio di piacere e sofferenza che arrivava da lontano e che riemerse nelle salite di Pantani, gli occhi su quella schiena esile e curva e su quegli scatti agili e inquieti. Pantani era insieme la tappa in corso e la nostalgia dei grandi campioni, un incrocio epico che trasmetteva in diretta l’adrenalina di un trionfo e il presagio di una disfatta.

Mi viene poi in mente che Piero amava il gioco delle carte, e mi ritrovo nella guardiola di via Firenze, una portineria appena visibile dal marciapiedi, laggiù in fondo all’atrio incastonato tra il negozio di moto e la scuola guida. Ci passavamo le ore in guardiola, interi pomeriggi, anzitutto con “cavacamisa”, gioco essenziale, meccanico, che insegna la serenità e la brutalità dell’ineluttabile. Poi con la “briscola”, una combinazione di fortuna e di arbitrio. Poi ancora con “scala 40”, ma solo dopo anni di gavetta.

E mi è tornato in mente in questi giorni, andando per sentieri di montagna, incrociando i segni della Grande Guerra, impigliati nei nomi dei luoghi, nelle gallerie scavate per proteggere e per avvistare, nei viottoli trasformati in strade per farci passare l’artiglieria, in una memoria che sembra oggi appartenere più alle cose che alle persone. Piero mi è tornato in mente anche se quella non fu la sua guerra. Lui arrivò subito dopo, giusto in tempo per affrontare e attraversare, da appena ventenne, l’altra guerra mondiale, la seconda, ancora più grande in effetti nei numeri e nei drammi.

Mi è tornato in mente perché lui, come molti altri, in guerra c’è andato davvero, e forse quando sei in piedi, con il fucile in mano, di fronte ad un altro uomo in piedi, anch’egli con il fucile in mano, e sai che per almeno uno dei due quello sarà l’ultimo atto, non conta più in che guerra sei, perché è scoppiata, chi sono i buoni e chi sono i cattivi: conta solo che è un ultimo atto.

Mi è tornato in mente perché una volta sola ho visto Piero offendersi davvero per colpa mia, al punto da alzarsi, sbattere la sedia e andarsene. Eravamo a tavola, a cena, si parlava del fascismo, della guerra e di chi la combatté. Ero fresco di studi scolastici su quel periodo storico e, con il filtro del tempo e le certezze della teoria, non avevo dubbi di cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato. Lui ricostruiva la sua storia, a episodi e impressioni, sul filo dei ricordi e dell’orgoglio. Ma io, nella mia dotta inesperienza, insistetti che sostenere il fascismo e combattere quella guerra erano stati grandi, tragici errori e che non era concepibile che qualcuno, davvero, in coscienza, potesse pensarla diversamente, ora come allora. Che era impossibile che qualcuno andasse al fronte pensando di aver ragione.

Ecco, sono in ritardo di oltre trent’anni su quella discussione, e sono in ritardo di oltre vent’anni sull’ultima occasione che ho avuto di dirlo proprio a lui, ma adesso vorrei scusarmi, ammettere che mi sbagliavo.

Non sul debole e scellerato regime che ci portò in guerra, e che poteva innestarsi solo in un sistema sociale e politico ancor più debole e scellerato. Non sul grossolano, drammatico errore delle avventure belliche che ne seguirono, dalle capricciose e scomposte aggressioni colonialistiche fino all’incerta e fallimentare partecipazione alla seconda guerra mondiale. No, io mi sbagliavo su di lui, sul suo punto di vista, su quello che poteva vivere un ragazzo di vent’anni partito per forza dalla campagna del basso vicentino, insieme a suo fratello Luigi (alla sua destra nella foto), per ritrovarsi in prima linea sul fronte greco-albanese, nelle squadre degli arditi, quelli che quando era il momento dovevano andare giù pesante di grappa e partire di corsa, a piedi, su un terreno sconosciuto, senza nome, con il fucile in mano, per incontrare da qualche parte, vedendolo da lontano o trovandoselo addosso all’improvviso, il nemico col fucile in mano.

Mi sbagliavo sul valore del ricordo e dell’orgoglio che lui aveva serbato per mezzo secolo e che, a tanti anni di distanza, gli consentivano di convivere con un pezzo ingombrante e indelebile della sua vita, un pezzo forte, potente, inafferrabile nella sua soverchiante realtà, un pezzo che per stare dentro alla sua esistenza successiva non poteva che essere semplicemente, unicamente come lo aveva visto lui e come lui lo teneva dentro.

Ineluttabile come “cavacamisa”.

Epico e fragile come gli eroi del ciclismo.

Che si chiamasse Giordano, come suo padre, lo sapevano in pochi. Per quasi tutti era solo Piero, ma per me è qualcosa in più: per me è il nonno Piero.

Luglio fa male

Quando si dicono queste cose in azienda c’è chi si affretta a toccare materiali e oggetti scaramanticamente appropriati, c’è chi ti addita come portatore di malasorte e c’è chi annuisce in silenzio confidando che riguardi sempre gli altri, ma lo dico lo stesso: A LUGLIO NEL LAVORO CAPITANO PIÙ INFORTUNI!

Lo mostrano le statistiche e lo conferma l’esperienza diretta. Ai corsi di formazione spieghi che oggi i morti sul lavoro, in Italia, sono in media dai 2 ai 3 al giorno per tutto l’anno, e che gli infortuni complessivi sono in media alcune migliaia al giorno per tutto l’anno. Poi vai oltre, racconti che dietro le medie si nascondono fenomeni significativi, ricorrenti, che determinano picchi di disgrazie nei lunedì mattina e nei venerdì pomeriggio, nei primi minuti e negli ultimi minuti del turno lavorativo. Non solo, conta anche l’anagrafe, se è vero che gli incidenti coinvolgono maggiormente i più giovani e inesperti (“non so che è pericoloso e ci casco”) e i più anziani ed esperti (“so benissimo che è pericoloso ma non ci cascherò mai”).

Ad un certo punto, ai corsi, fai la domanda: secondo voi in che periodo dell’anno ci si fa più male? Di solito i partecipanti conoscono d’istinto la risposta, e mentre stanno lì al sicuro, seduti sulle sedie in aula (o davanti allo schermo in videoconferenza), sorridono e ti guardano con complicità, o magari con condiscendenza: prima delle ferie, sì, anche a dicembre, ma soprattutto a luglio. Perché soprattutto a luglio? Perché fa caldo, perché si è stanchi, perché si corre di più per finire le commesse e per completare le spedizioni prima della sosta. Perché capita che a luglio la testa parta un po’ in anticipo per le vacanze, lasciando indietro il corpo, dimenticato e indifeso sul posto di lavoro.

Poi un anno, il 2020 per la precisione, ci si mette pure il coronavirus, che scombina i piani e indebolisce gli animi, rende incerti il lavoro e anche le ferie, confonde l’ordinario con lo straordinario, e ci si ritrova a luglio ancora più esposti del solito. Esposti a cosa? Be’, all’errore, all’imprudenza mascherata di fatalità, all’imponderabile, proverbiale deviazione dallo standard che, per quanto isolata, anche se capita una sola volta nella storia dell’umanità, può essere fatale.

Ai corsi su queste cose siamo tutti d’accordo. Anche alle riunioni periodiche. Anche nelle chiacchierate davanti al caffè con datori di lavoro, preposti e lavoratori. Tutti d’accordo, tutti consci, tutti sul pezzo. È solo per goliardia che ti mandano a quel paese quando avverti: OCCHIO COMUNQUE, CHE A LUGLIO NEL LAVORO CAPITANO PIÙ INFORTUNI! Poi il corso finisce, così come finiscono la riunione e la pausa caffè, e ognuno, tra una risata e un sospiro, scaccia i pensieri fastidiosi e torna alla sua normalità.

Perché in fondo le parole non ti tagliano la punta del dito, le statistiche non si conficcano in profondità nell’occhio, gli avvisi non ti schiacciano il piede appena sopra il puntale, le risate e i sospiri non ti spingono violentemente contro uno spigolo né ti fanno cadere dalla scala a pioli.

Fino all’istante in cui succede, magari proprio a luglio.

Allora inizia un’altra storia.

Il Lido del Cinema

Bianco, vuoto, in disinteressata attesa, come lo schermo in sala fuori orario di proiezione.
Così trovi il Palazzo del Cinema una mattina di giugno. Non sei lì per lui eppure lui, senza un cenno, ti trattiene.

Ti aggancia con l’immobilità e col silenzio e, presto, arrivano loro.

Arrivano come la corsa dei bisonti che, lontani nella prateria deserta, sgranano di polvere il filo dell’orizzonte. Come il treno quando è ancora invisibile ma se appoggi l’orecchio alla rotaia lo senti dentro.

È così che sopraggiungono e si riappropriano del loro spazio al Lido i decenni di Mostra del Cinema. Saettano e indugiano, si accalcano e si diradano immagini, suoni, impressioni. Sfilano, vociano, ammiccano e sfuggono i personaggi. I curiosi e gli appassionati, i dimessi e gli esibizionisti, le maschere e i mascherati, gli addetti ai lavori e gli addetti agli addetti ai lavori. Le ragazzine che si insediano ai bordi della passerella già alla mattina, sotto il sole, per accogliere trepidanti in prima fila le star della sera. I ragazzini che recitano la stessa trepidazione pur di stare addosso alle ragazzine. I cineasti potenziali che escono dalla sala spiegando come l’avrebbero girato meglio, loro, quel film. La famosa attrice in borghese che passa quasi inosservata, l’attore ignoto che viene acclamato all’unica conferenza stampa della sua vita. I vestiti di gala a metà pomeriggio, gli zainetti degli instancabili dopo l’ottava proiezione di giornata, i dieci minuti di applausi per l’opera inaspettata e sorprendente, i fischi impietosi sui titoli di coda con il regista seduto lì accanto.

E ti viene in mente perché, tra tutte le arti, il cinema tanto tempo fa ti ha conquistato e non ti ha lasciato più: perché il cinema è tutte le arti, tutte insieme allo stesso tempo, combinate e sovrapposte, mitigate e potenziate. Ti viene in mente che il cinema ti tira dentro, finge di raccontarti le storie e intanto te le fa vivere.

E ti viene in mente che in una sala fuori orario di proiezione, se guardi bene, se le lasci arrivare, puoi riconoscere le tracce di tutte le storie che ci sono passate: sono ancora lì, impresse sullo schermo bianco, vuoto, in disinteressata attesa, come sul Palazzo del Cinema una mattina di giugno.

Rino guarda le montagne

Quando indica la direzione alza il braccio con un movimento simile all’effetto del vento sull’erba alta, l’indice appena incurvato. Il movimento aggancia il mio sguardo e lo spinge direttamente lassù, al Colle degli Alpini, non lungo tornanti e per sentieri, ma in linea retta, come se non fosse una meta da raggiungere ma un luogo in cui essere già.
Dal colle, dice, si vedono bene la vallata e le pale.
Ci pensa, o forse si sposta.
Però secondo me “ai Stoli” è anche meglio.
Il braccio si alza ancora, e adesso il vento lo dirige un po’ più a sinistra.
Da là si vedono la vallata e le pale, ma anche il Vanoi, le Feltrine e lo Schenèr. E proprio sotto ci sono le gallerie della grande guerra, si possono accendere le luci dentro, hanno i pannelli solari. Però poi bisogna spegnerle prima di andar via.
Era arrivato poco prima sotto il portico del Rifugio Vederna, passo lento e sguardo schivo. Schivo ma attento. Lento ma famigliare.
Ci ritroviamo vicini di tavolo, in un posto che, secondo il gestore, apre davvero tra una settimana. Eppure siamo lì a mangiare: misteri della montagna, che ha stagioni e orari e regole ma a modo suo è sempre aperta.
È di qui? chiedo.
Sempre stato qui, sì. Avanti e indietro, su e giù per queste montagne. Una volta… adesso meno. Una vita qui comunque.
Ho un maso un chilometro in là, ci ho cresciuto i miei figli. Si stava bene al maso. 18 metri è lungo, da qua a là.
Il braccio e il vento lo aiutano a spiegare. Lo sguardo rimane fisso sul bosco e sui pendii.
Avevate anche bestiame?
Ah, solo bestie piccole. Conigli. Galline. Stavamo proprio bene al maso. Ora non posso più. Gli anni… Ora sto da solo, giù in paese. Però vengo qui.
Il braccio si appoggia sul tavolo, il vento si ferma.
La mia casa è qui.
Il suo racconto corre sul filo, tra orgoglio e nostalgia, tra ciò che c’è e ciò che manca, come un cammino in cresta al tramonto, un passo sul versante che brilla dell’ultimo sole e l’altro sul versante già immerso nell’ombra.
Arriva il caffè. Beve un sorso in silenzio.
Poi bisbiglia: è troppo denso, serve il diluente.
Bisbiglia solo, non c’è nessun altro intorno, ma poco dopo sul tavolo compare la bottiglia di grappa.
È davvero bello qui, rilancio.
La mia vita è la montagna. Ognuno ha i suoi gusti, per carità, ma per me non c’è paragone. Viaggi, città, no no. Neanche il mare. Mi piace l’acqua però.
Mi guarda.
Quest’anno sono 67 anni di licenza di pesca.
Tento un conteggio sull’età, rinuncio e chiedo: Acqua dolce immagino.
Sì, torrenti.
Sorride, forse. O forse no.
Ho una cugina a Firenze, ho anche dei parenti a Roma, ci sono stato dieci giorni.
Scuote la testa, quasi per scrollarsi di dosso immagini e sensazioni scomode.
No, no, non fa per me, io scelgo sempre quella roccia.
Il vento si ridesta e porta il braccio verso il Pavione.
Io: vorrei salirci sul Pavione prima o poi, dicono ci sia una vista fantastica.
Lui: da lassù vedi lontano, ma bisogna andarci dopo un temporale, allora vedi ancora più lontano, fino all’Austria.
Io: sì, e dietro si vede la pianura…
Lui: là di fronte puoi contare anche 4 o 5 catene di monti, a strati, come onde.
Il braccio ora è fermo, ma il vento soffia deciso e sono le parole a muoverlo.
Io: da una parte i monti e dall’altra fino al mare, fino a Venezia, vero?
Lui mi guarda un istante, poi torna sulle rocce: sì, ma io guardo le montagne.
Capisco.
Lo saluto.
Gli chiedo il nome.
Rino, dice.
Arrivederci Rino, dico, magari ci rivediamo qui.
Sorride, forse. O forse no.
Grazie, arrivederci.
Non l’ha fatto, ma se mi avesse chiesto perché ho voluto sapere il suo nome credo che gli avrei detto la verità.
Per dare il titolo a questa storia.

Barba e Alvise da Pellestrina

Inizio giugno 2020, un primo pomeriggio, a Pellestrina: viene intercettata una chiacchierata tra gabbiani, fronte laguna, in lingua originale (in coda sottotitoli in italiano**).
“Sto giro, Alvise, lì gà molà fora sul serio.”
“Oh, Barba, varda lì, i xè tuti in giro”.
“Taxi và, e tuti tra i piè par isoe oncò, sti fioi.”
“Me digo che no xè restà nesun in teraferma”.
“I core e i ciacoa come pioci imbriaghi”.
“Eh, amigo, i lì gà sarà su a carnevae e da alora ghe sarà restà el borezo”
“Te ghè rason, Alvise, sarà par queo che i xè tuti in màscara”.
“Craaaaa, craa. A te me fe morir, Barba. In màscara…”
“Ma i xè dei cancari, seto. Naso fora, boca fora, màscara in scarsea.”
“Ma gai capio calcosa secondo ti?”
“Un casso i gà capio. Vardali, bei fa el sole, tuti imucià, in festa.”
“Fin ieri l’altro tuti sarà su, tuti spaventà. Deso basta, come no fose suceso gnente.”
“Alvise, scoltame mi: i unici fioi che gà capio davero xè sempre i fioi morti, ma quei no parla pì, e i altri va’ xò de spris.”
“Se stava mejo però, Barba, sensa tuto sto casin. I xè molesti a manego, sti fioi.”
“Sì, molesti e cojoni i xè, i fa altro che bacàn e sporco. Ma a calcosa i ne serve anca”.
“I ne serve sì. I buta in giro de tuto, e calcosa da magnar rumemo sempre.”
“E dopo, Alvise, credeme: mi el me mancava el zugo de volarghe sora e centrarli in testa col schito.”
“Anca mi, Barba, xè mia ugual schitarghe in testa ai colombi.”
“Vanti lora, godemosela prima che el corona lì incuea ancora”.
E volano via, a craaaaa craa alterni, in direzioni opposte, stesso cielo.

** Sottotitoli ufficiali, versione autorizzata dal tavolo permanente tra Ministero del Salto di Specie e parti sociali:
“Stavolta, Alvise, li hanno fatti uscire davvero.”
“Ebbene sì, Barba, guarda, sono tutti in giro.”
“Per giunta tutti qui che vanno per isole oggi.”
“Non ne sarà rimasto alcuno in terraferma.”
“Corrono e chiacchierano assai vivacemente.”
“Eh, amico mio, sono rimasti chiusi da Carnevale e sarà rimasta loro la smania di spassarsela.”
“Hai ragione, Alvise, sarà per quello che sono tutti in maschera.”
“Craaaaa, craa. Sei un burlone, Barba. In maschera…”
“Ma sono degli stolti, sai. Naso fuori, bocca fuori, maschera in tasca.”
“Secondo te hanno imparato qualcosa?”
“Non hanno imparato alcunché. Guarda che spensierati, assembrati e in festa.”
“Fino a pochi giorni fa tutti rinchiusi e spaventati. Adesso basta, come non fosse successo nulla.”
“Alvise, dammi ascolto: di tutti gli umani gli unici ad aver imparato davvero la lezione sono sempre quelli venuti meno, ma quelli non parlano più, e gli altri restano a far baldoria.”
“Si stava meglio però, Barba, senza tutto questo movimento. Disturbano parecchio questi umani.”
“Sì, disturbano e fanno stupidaggini, strepitano e sporcano. Ma ci servono anche.”
“Ci servono, sì. Gettano in giro di tutto, e noi possiamo sempre reperire qualcosa di commestibile”.
“E inoltre, Alvise, ti dico la verità: sentivo la mancanza del nostro gioco, volare sopra gli umani e prenderli di mira”.
“Anch’io, Barba, non è lo stesso prendere di mira i colombi.”
“Allora andiamo a divertirci, prima del prossimo lockdown.”